Intervista a Esteve Riambau
Ha dedicato a Orson Welles un documentario, uno spettacolo teatrale e quattro libri. Esteve Riambau, direttore della Filmoteca della Catalogna, è uno dei più importanti studiosi del cineasta americano. Lo abbiamo incontrato nel corso della trentesima edizione del Cinema Ritrovato. Arricchiamo così di un nuovo contributo il nostro speciale su Orson Welles.
Tu sei allo stesso tempo un importante studioso di Welles oltre che un conservatore e un restauratore, in primis per il tuo ruolo di direttore della Filmoteca della Catalogna. Dunque quali sono i problemi che il cinema di Welles pone a chi restaura i film?
Esteve Riambau: Credo che tra i cineasti più importanti della storia del cinema Welles sia quello che pone i problemi maggiori per chi restaura i film. Perché la sua opera è enorme e magmatica. Welles ha finito infatti solo tredici lungometraggi, ma tra i progetti che non è riuscito a portare a termine c’è una quantità di materiale incredibile, la cui mole è forse superiore a quella dei suoi film finiti. Senza parlare degli altri aspetti di Welles, che a me interessano comunque molto, vale a dire il Welles della radio, quello del teatro e quello della televisione. È per questo che siamo un gruppo di venti pazzi in giro per il mondo che inseguono la sua opera da trenta anni e non ne usciamo mai. Perché escono nuovi materiali, si scoprono nuove cose, le nuove biografie parlano di periodi assolutamente inediti, come ad esempio il nuovo libro di Pat McGilligan, Young Orson, che parla del giovane Welles con delle informazioni assolutamente inedite fino ad ora. Io stesso lo scorso anno ho fatto una ricerca su Falstaff, e anche da lì sono venute fuori delle storie incredibili. Quindi Welles è una miniera interminabile per i ricercatori, per gli accademici…
E come si può restaurare allora un film non finito di Welles?
Esteve Riambau: In tal senso io sono molto prudente nell’usare la parola restauro. Io credo che restaurare voglia dire ritornare allo stadio originale di un’opera. E allora, se abbiamo un quadro di Velázquez, o di Picasso, o di chissà chi altro ancora, si può tornare all’oggetto originale se c’è un parametro di riferimento. Nel caso del cinema il discorso è più complicato, innanzitutto perché negli ultimi anni ci siamo resi conto tutti quanti che il fenomeno delle multiversioni dei film era molto frequente. Al tempo del muto per esempio i grandi film si giravano con due o più macchine da presa per avere più negativi e avere così la possibilità di stampare un maggior numero di copie per l’esportazione. Il take migliore veniva scelto per la versione che si faceva uscire in patria, mentre quelli meno buoni si usavano per le copie d’esportazione. E allora è successo così che, ad esempio, ci sono cinque versioni diverse del Faust di Murnau, ed è successo che Metropolis è cambiato così tante volte. Nel caso di Welles poi, la maggior parte dei film inediti sono film non finiti. Ad esempio, quando parliamo del Don Chisciotte parliamo di un film iniziato nel ’57 e mai finito dopo tanti anni di lavorazione. Ciò vuol dire che esistono diversi Chisciotte di Welles, che si tratta di un film in continua evoluzione. Ed è per questo che l’operazione del 1992 di Jesus Franco, Don Quijote de Orson Welles, era sbagliata dal momento che pretendeva di offrire al pubblico la presunta versione di Orson Welles. Cos’è il Don Chisciotte di Welles? Semplicemente non esiste. Esistono dei materiali sui quali Welles ha lavorato durante vent’anni. Per intuire cosa avrebbe potuto diventare quel film ci può venire in aiuto, tra i suoi film non finiti, F for Fake. Qui infatti il materiale originale non è di Welles, ma di François Reichenbach, che aveva fatto un film per la TV con i falsari che poi diventano protagonisti di F for Fake. Ho visto in moviola la copia del film di Reichenbach destinata a Welles, con i segni sulla pellicola per le parti che sono entrate in F for Fake. Parliamo di trenta, quaranta minuti, mica di poco. Welles dunque ha utilizzato un materiale esterno, l’ha montato con cose girate da lui e così ha creato un discorso di cui si è appropriato. E non è un caso che nel film è centrale la scena davanti alla cattedrale di Chartres dove Welles si chiede chi è il vero autore di quell’opera immortale. Nessuno, o tutti.
Ma non è eccessivo che, in occasione della retrospettiva che è stata fatta lo scorso anno a Parigi, alla Cinémathèque Française, abbiano indicato F for Fake come una co-regia di Welles e di Reichenbach?
Esteve Riambau: No, perché questo era l’accordo iniziale. Per avere quel materiale, Welles aveva promesso a Reichenbach che avrebbero firmato il film insieme.
Sempre per restare alla retrospettiva della Cinémathèque Française, in quell’occasione abbiamo avuto l’opportunità di vedere per la prima volta la copia-lavoro del Don Chisciotte. E grande è stata la sorpresa nello scoprire che non c’è mai Welles come narratore, come invece veniva indicato in tante interviste e articoli. Rosenbaum ci ha risposto in proposito che Welles aveva deciso di eliminare la figura del narratore. Tu cosa ne pensi?
Esteve Riambau: Questa cosa è difficile da sapere. In quanto se si vuole dare credito a Welles, prestando fiducia alle cose dette da lui, non se ne esce più, perché lui è un meraviglioso raccontatore di storie, ma allo stesso tempo è un gran bugiardo. E allora, sì per esempio ha deciso di togliere il personaggio di Dulcinea, semplicemente perché l’attrice che la interpretava era diventata adulta. Ma non sono così sicuro che avesse deciso di abbandonare questa idea del meta-linguaggio, perché nelle immagini girate tanti anni più tardi a Pamplona si vede Akim Tamiroff nei panni di Sancho Panza che si rivolge a Welles e gli chiede se abbia visto Don Chisciotte. Questa impostazione era assolutamente coerente con il romanzo di Cervantes, che già di suo è metalinguistico, e coerente anche con tanti altri lavori di Welles. Ho provato a immaginare il Don Chisciotte di Welles negli anni Settanta, e sono sicuro che sarebbe stato a qualcosa di simile a F for Fake. Già nel 1958 sia in The Fountain of Youth che in Portrait of Gina aveva lavorato su questo piano meta-linguistico, anche se in un contesto televisivo. Questo meccanismo, con lui in scena a fare da narratore – un uso originalissimo del linguaggio televisivo eppure caratteristico del mezzo – l’aveva poi trasposto al cinema in F for Fake. E forse, se avesse potuto, avrebbe fatto la stessa cosa con il Don Chisciotte. Ma anche Il mercante di Venezia… Perché gira almeno due volte il monologo di Shylock in abiti contemporanei? Perché negli anni Settanta non avrebbe avuto nessun problema a integrare questo monologo ‘attuale’ nel film in costume. Questo era il Welles trasgressivo degli anni Settanta che sfuggiva dalla narrazione classica per andare verso il saggio. Poi, in quel periodo in particolare, Welles girava in maniera compulsiva – avvalendosi dell’aiuto come operatore e direttore della fotografia di Gary Graver – e quindi, appena trovava una cosa che gli sembrava interessante, la faceva. E ora, riguardando questi materiali, è impossibile sapere che uso volesse farne e se effettivamente avesse intenzione di farne un uso preciso. Per tornare a Falstaff, c’è la scena del pre-finale quando il nuovo re disconosce pubblicamente Falstaff/Welles che è girata in sette diverse location, ed è quasi impossibile rendersene conto. Eppure quel momento – che sembra un’unità di luogo e di tempo visto che si tratta di una singola scena – si compone di sette diversi posti girati nell’arco di cinque mesi. Lui aveva tutto in testa, sapeva perfettamente cosa aveva girato e dove, e come montarlo. E per chiudere sul Don Chisciotte, io ad un certo punto, in una cosa che ho scritto, ho fatto l’ipotesi che Welles avesse lasciato a un tratto della lavorazione il Don Chisciotte di Cervantes per fare sua la rilettura del Don Chisciotte di Miguel de Unamuno. Che quindi avesse intenzione di virare verso il saggio.
Però la copia-lavoro di Parigi…
Esteve Riambau: Nessuno può dimostrare che quella è una copia-lavoro.
Ah, davvero?
Esteve Riambau: Certo, quelli sono materiali per il Don Chisciotte. Uno dei grandi misteri da risolvere per quel che riguarda Welles è capire da dove arrivino i materiali che sono in ciascuna cineteca. Da dove viene il materiale di Parigi? Da dove viene il materiale che era negli Stati Uniti e che poi è finito nelle mani di Jess Franco? Dov’era il materiale di Mauro Bonanni, prima di finire a Cinecittà? Perché il materiale che era in Spagna è finito in parte verso il Friuli, a Cinemazero? E, secondo me, quella di Parigi non va considerata una copia-lavoro. È comunque importante quel materiale, perché si vede come lavorava Welles, ad esempio nel modo in cui utilizzava il sonoro, ridoppiando lui stesso sia Sancho che Don Chsciotte. Ma anche questa è una cosa molto abituale di Welles. Ne Il processo ad esempio ci sono brani con Anthony Perkins che sono stati ridoppiati da lui stesso, ed è assolutamente impossibile capire quali sono i momenti in cui la voce di Welles sostituisce quella di Perkins. Del resto, come sappiamo, lui era un maestro nell’uso della voce, grazie al lavoro che aveva fatto in radio.
Cosa ne pensi del restauro del Mercante di Venezia?
Esteve Riambau: Quella è una ricostruzione che è stata fatta a partire da un materiale che non si sa se è finito oppure no. Non si saprà mai se Il mercante di Venezia era davvero finito e se quindi è vera la storia che si racconta che la bobina mancante sia stata rubata.
Tu cosa ne pensi della teoria di Stefan Drossler del Munich Film Museum, che gestisce tutti gli incompiuti di Welles ereditati da Oja Kodar, e che – a proposito di questi – dice che debbono essere non restaurati, ma ricostruiti?
Esteve Riambau: Ritornando all’idea teorica che un restauro ha senso solamente quando si può risalire a un originale perfettamente identificato, in tutti gli altri casi si tratta di operazioni di presentazioni pubbliche di materiali. Nel caso del Mercante di Venezia si è lasciata traccia di quali erano i materiali originali e dunque si tratta di una proposta offerta allo spettatore contemporaneo per farsi un’idea di come sarebbe stato il Mercante secondo Welles. Con The Other Side of the Wind vale lo stesso discorso. È un film che non è stato finito. E ogni operazione destinata a fare finta che The Other Side of the Wind sia un film in qualche modo portato a termine sarà destinata al fallimento. Perché non è vero [vedere in tal senso anche l’intervista a Jonathan Rosenbaum, n.d.r.]. E perché il montaggio di Welles era assolutamente unico e inimitabile. Ho parlato delle ore con i due montatori di Falstaff a proposito del modo di lavorare di Welles in moviola. E, ad un certo punto della lavorazione, il secondo montatore, Fritz Muller, fu incaricato di ‘parare’ il montaggio, di cercare di mettere in ordine in tutto quel materiale, senza buttare nulla, perché Welles poteva decidere di recuperare in maniera inaspettata quello che a un dato momento aveva deciso di scartare. La battaglia che si vede in Falstaff durava inizialmente mezz’ora, poi era stata tagliata fino a dieci minuti, quindi era scesa addirittura a tre! Un processo di decurtazione tale che alla fine rischiava di non esserci più niente. Ed è in questo senso che si poteva montare all’infinito con Welles. Anche perché poteva capitare – ed è capitato sempre per il Falstaff – che al montaggio si rendeva conto che gli mancava una cosa e quindi diceva alla regia della seconda unità: “Andate e girate questa cosa qui, ho bisogno di un primo piano di un cavallo che cade”. Così si giravano dei nuovi inserti in base al ritmo che la scena assumeva in sede di montaggio. Nessuno ha il diritto di fare oggi questa cosa. In The Other Side of the Wind ci sono circa 25, 30 minuti montati direttamente da Welles, il resto sarà montato da altri, per avere una struttura, per poterlo vendere alla HBO. Ma non è il montaggio di Welles.
Infatti questi materiali bisognerebbe vederli così come sono rimasti, anche non montati.
Esteve Riambau: Ma pensiamo al Too Much Johnson. Noi abbiamo fatto a Barcellona la quarta proiezione mondiale. Abbiamo fatto una presentazione dove io con il microfono spiegavo ogni cosa, la trama, i personaggi, ecc. Perché, se tu vedi tutto il materiale così com’è, il pubblico – anche il pubblico di una cineteca – non capisce niente. Allora bisogna ‘aiutare’ un po’ queste immagini, comunque senza fare finta che si tratti di un prodotto finito. La partitura originale di Too Much Johnson, Music for a Farce, che venne scritta da John Bowles, dura circa tredici minuti, molto meno della durata del film. E allora io ho parlato con il musicista che lavora abitualmente per noi, specializzato nel cinema muto, e mi ha risposto che Bowles si rifaceva ai musicisti d’avanguardia americani della scuola di Erik Satie e dunque le loro composizioni erano sempre così, molto limitate nel tempo, e poi a partire da lì facevano delle improvvisazioni. Quindi anche lui ha fatto così. Ed è andata abbastanza bene, abbastanza perché qualche spettatore comunque diceva: ma questo non è un film! Infatti, non è un film, sono dei materiali per i tre atti di uno spettacolo teatrale che si chiamava Too Much Johnson, e che non è stato mai fatto. Il pubblico deve essere cosciente nei confronti di questi materiali: quale è il loro senso e perché li si mostrano. Quindi questo è il lavoro di una cineteca: essere da una parte preservatori del materiale originale, e dall’altra divulgatori per il pubblico in un formato che si può comprendere. Un errore da un lato, secondo me, è mostrare i materiali bruti, senza alcun intervento, ma un altro errore è mostrare il film come se fosse finito, quando non lo è. Allora in questo caso c’è la soggettività e l’interpretazione. Con l’interpretazione che Stefan Drossler fa del materiale del Mercante si può dire: io sono più o meno d’accordo, avrei fatto così, o forse avrei fatto colà. Ma la differenza tra quello che fa Jess Franco e quello che fa Drossler è che Franco faceva finta che quello era il Don Chisciotte di Orson Welles. Drossler non dice mai questo. Sono dei materiali per un film non finito di Orson Welles, interpretati e presentati. Sono assolutamente d’accordo con questa idea della presentazione, mettendo in evidenza che si tratta di materiali non finiti. Penso anche a The Deep…L’ho visto quattro o cinque volte e la versione presentata da Drossler dura 110 minuti. Perché Stefan ha detto: lascio la maggior parte del materiale che è rimasto, strutturato in un ordine cronologico. Sono sicuro – e anche Stefan ovviamente ne è consapevole – che se Welles avesse potuto finire il film, questo sarebbe durato 80 minuti, non di più. Perché invece questo montaggio è così lungo? Perché così si ha la possibilità di vedere più o meno tutto quello che è rimasto, però con delle parti ovviamente senza dialogo, delle altre in nero, ecc.
In Italia il cinema di Orson Welles ha cominciato ad essere preso sul serio dalla critica cinematografica solo a partire dagli anni Sessanta. Quale è stata invece la fortuna critica di Welles in Spagna?
Esteve Riambau: Beh, come sai, il rapporto di Welles con la Spagna è sempre stato molto intenso. Lui è venuto nel nostro paese per la prima volta nel 1933, quando aveva solo diciotto anni. Poi è stato molto attivo al tempo della guerra di Spagna, a difesa del governo repubblicano, sia con dei programmi radiofonici che con degli articoli di giornale. Ed è anche il narratore di The Spanish Earth, il film di Joris Ivens del 1937 sempre sulla guerra in Spagna, scritto da Dos Passos e da Hemingway. Questo ha fatto sì che, a partire dal 1939, dopo la presa del potere da parte di Francisco Franco, per lui per un periodo non è stato più possibile rientrare nel paese. E, a cominciare da questo momento, si può notare come Welles abbia sostituito la Spagna con l’America del Sud. È una mia ipotesi, questa, ma la considero abbastanza fondata: dal ’39 in poi Welles ha un rapporto sentimentale con Dolores del Rio; si sposa con Rita Hayworth – che si chiamava Margarita Cansino ed era figlia di spagnoli -; fa la prefazione del libro della toreadora messicana Conchita Cintrón; scrive diverse sceneggiature non realizzate, da Santiago ad altre, con elementi latino-americani; dirige The Stranger con degli elementi argentini lavorando sull’idea di bloccare il nazismo a partire da lì, e ovviamente gira It’s All True in Messico e Brasile. Infine Welles torna in Spagna tra il 1953 e il ’54, giusto pochi mesi dopo la firma del trattato di amicizia tra Eisenhower e Franco. E, in questo momento di recupero della collaborazione tra la Spagna franchista e l’America anti-comunista, i due primi grandi intellettuali che bussano alla porta di Franco comunicando che vorrebbero rientrare sono Welles e Hemingway. Entrambi hanno avuto un ruolo molto attivo nella difesa dei repubblicani, ma per loro la Spagna è troppo importante e va al di là di Franco. Dunque, da subito, Welles torna a girare anche in Spagna, già con Mr. Arkadin. Comunque, anche in Spagna, sono stati i critici delle riviste specializzate degli anni Sessanta a rivendicare l’importanza di Welles. All’epoca si conoscevano soprattutto Citizen Kane (Quarto potere) e L’orgoglio degli Amberson, non The Stranger che era proibito per motivi politici. Però, se Welles era conosciuto e apprezzato da parte della critica, non godeva della stessa stima da parte dei produttori. A Madrid ad esempio in quegli anni c’era Samuel Bronston, che ha prodotto dei film di Nicholas Ray, di Henry Hathaway, di Anthony Mann. Anche Welles era lì – anzi, come detto, tra i registi era stato il primo ad arrivare – però non ha mai ricevuto delle proposte per girare film nella Spagna di Franco. E così l’unico rapporto che ha intrattenuto con questo Samuel Bronston è stato quello di essere invitato al matrimonio della figlia di lui, e nient’altro.
Uno studioso storico del cinema di Welles in Spagna è Juan Cobos, che tra le altre cose ha scritto un libro in due volumi insieme a te, Orson Welles: Una España immortal e Orson Welles: España como obsesión. E poi Cobos divenne anche amico di Welles…
Esteve Riambau: Sì, Juan Cobos è uno dei giornalisti che fece l’intervista a Welles su Film Ideal, una grande intervista. Si sono conosciuti così, e poi Welles ha offerto a Cobos la possibilità di diventare suo segretario personale, suo assistente, durante le riprese di Falstaff. Anni dopo, quando mi chiesero di scrivere la biografia spagnola di Welles, ho chiesto a Cobos di farlo in collaborazione e così abbiamo fatto i due volumi.
Tra i tanti misteri che riguardano il cinema e la vita di Welles c’è quello che ruota intorno al famoso incendio della villa di Madrid, avvenuto nell’agosto del 1970. Si racconta che in quell’occasione si bruciarono anche alcuni film.
Esteve Riambau: Andate a guardare i giornali spagnoli dell’epoca e capirete che è bruciata solo una parte dei libri della biblioteca.
Sì, li siamo andati a vedere, e in effetti dicono questo. Però allora non si capisce perché ogni tanto si fa riferimento a questo incendio – e anche Rosenbaum nella cronologia di Io, Orson Welles lo fa – per dire che anche delle pellicole sarebbero andate perse in quell’occasione. Ad esempio del Too Much Johnson – ed era Ciro Giorgini in particolare a sostenerlo – si dice che forse la copia di quel film era lì a Madrid ed era bruciata in occasione dell’incendio. Dunque, sosteneva sempre Ciro, quella che è stata ritrovata potrebbe essere una seconda copia, una sorta di scarto. Il che spiegherebbe la misteriosa assenza della scena dell’eruzione vulcanica, che avveniva al momento dell’arrivo a Cuba dei personaggi.
Esteve Riambau: Quello che so è che i film erano in una parte completamente diversa dalla libreria. Credo che sia molto improbabile che sia bruciato Too Much Johnson a Madrid.
Ripensando all’operazione del 1992 di Jess Franco sul Don Chisciotte, come è stato possibile che sia stata autorizzata una cosa del genere, senza un minimo di copertura culturale da parte di studiosi del cinema di Welles?
Esteve Riambau: Io ad esempio l’ho saputo quando l’operazione era già iniziata. È stata un’operazione commerciale, c’erano i soldi dell’Esposizione Universale di Siviglia del 1992, c’era un produttore, Patxi Irigoyen, e questi ha deciso che Jess Franco, perché conosceva Welles e aveva lavorato con lui, era la persona più indicata per lavorare a una edizione del Don Chisciotte. Oja Kodar era la partner commerciale, si sono accordati e hanno fatto questa cosa. Ripeto, il grande errore è stato quello di presentarlo come il Don Chisciotte di Welles, mentre invece si tratta del Chisciotte di Franco, montato a partire da materiali di Orson Welles. Sappiamo benissimo che Franco ha addirittura girato delle parti ex novo per questa versione, senza ammetterlo esplicitamente. Ma, come dire, ho la prova provata. Infatti, anni dopo, mentre ero a cena con dei colleghi, mi è capitato di conoscere una ragazza che faceva la scenografa. Si parlava del più e del meno, cosa fai e cosa non fai. E lei ad un certo punto ha detto: “Come scenografa ho lavorato anche con Franco per il Don Chisciotte”. “E cioè?”, le ho fatto io. “Ho fatto le pale del mulino”, mi ha risposto. Assurdo!
Ma qual è stato il ruolo della Cineteca di Madrid in questa faccenda?
Esteve Riambau: Era solo quello di ricevere i materiali e di salvaguardarli per la preservazione culturale. Non aveva nessuna possibilità di decisione sul montaggio.
Ci sono secondo te le possibilità di vedere prima o poi il Don Chisciotte in una qualche forma?
Esteve Riambau: Si può vedere il materiale del Don Chisciotte, ma bisognerebbe prima riunirlo, poi fare una classificazione più o meno logica e tenere sempre a mente che non c’è mai stato un Don Chisciotte di Welles, ma un work in progress che si chiamava Don Chisciotte, su cui Welles ha cambiato opinione nel corso di almeno vent’anni, girando anche in diversi formati, tra cui il 35mm e il 16.
E potrebbe succedere questa cosa prima o poi?
Esteve Riambau: Sì, ma l’interesse sarà relativo perché Welles non c’è più. E sono sicuro che Welles alla fine avrebbe fatto un film completamente diverso da quello che aveva in mente all’inizio. Non sapremo mai, ad esempio, se avrebbe effettivamente mescolato tutto il materiale che aveva a disposizione. Torno a quello che dicevo all’inizio: i film finiti di Welles sono solo la parte superficiale di un grande iceberg pieno di materiali. Lui scendeva sempre nella parte nascosta di questo iceberg a cercare dei materiali per fare le sue composizioni, e tanto più diventava libero e indipendente, tanto più era in grado di mescolare e innovare il suo linguaggio e il cinema in genere. Il motivo per il quale il Don Chisciotte non è mai stato finito è perché alla fine non c’era nessun produttore che diceva: basta, bisogna finirlo oggi! Il produttore di Falstaff è arrivato al punto di distruggere un set, perché non c’era più tempo. Se non fosse arrivato a questa drastica decisione, avrebbe permesso a Welles di continuare a lavorare sul Falstaff per chissà quanto tempo ancora. Perché Welles non era mai contento e soddisfatto e sentiva sempre l’esigenza di migliorare, di cambiare, di modificare tutto. La storia di Falstaff adesso la conosco molto bene: inizialmente erano previsti tre mesi di riprese e ce ne hanno messi sei, poi ci è voluto un anno di post-produzione in cui Welles ha fatto mille cambiamenti. Infatti, ad esempio, oltre a chiamare le seconde unità per girare delle cose nuove, Welles, se aveva bisogno del primo piano di un attore, che magari ormai era impegnato su un altro set, prendeva un totale e in laboratorio faceva un estratto per avere il primo piano. Poi, se riguardate i titoli di testa, ci sono quelle case con i cavalli che passano. Ebbene, quelle case erano trucchi. Nella realtà ce n’era una sola. Lui l’ha girata così e poi, per avere anche la seconda, ha capovolto l’inquadratura e l’ha sovrapposta. Dal niente faceva delle grandi cose, come nessuno – neanche i suoi più vicini collaboratori – Franco, Bogdanovich, Bonanni, Perpignani, può dire di sapere come Welles avrebbe risolto una certa cosa. È assolutamente impossibile. È un cineasta ‘desbordante’ in tutti i sensi, non solo per la sua incredibile capacità di lavorare sul materiale, ma anche letteralmente per l’essere stato molto più che un semplice cineasta. Infatti, era un artista multidisciplinare, che girava come girava e montava come montava anche perché utilizzava degli elementi che aveva imparato in teatro e alla radio, dall’uso delle luci passando per il modo di mettere in scena gli attori. Nel mio libro su Falstaff ho avuto accesso ai materiali di preparazione della versione teatrale che Welles ha fatto a Dublino prima del film e, tra le varie cose, ci sono dei piccoli disegni fatti da lui stesso. E in molti casi le scenografie dipinte e le sequenze disegnate le ha poi riprese letteralmente nella messa in scena del film. Allora è impossibile parlare di Falstaff senza sapere che prima aveva lavorato a questo tipo di messa in scena teatrale. Senza dimenticare che conosceva tanto bene Shakespeare da riuscire a trascenderlo.
Detto tutto questo, va bene, non è riuscito a finire The Other Side of the Wind, non è riuscito a finire Don Chisciotte, e non sapremo mai come volesse chiudere quei film, però per esempio aver scoperto un film-non-film come Too Much Johnson è stato un passo in avanti molto importante per approcciarsi meglio al suo cinema, per capirlo meglio. Intanto per il discorso che, ben prima di Citizen Kane, Welles conosceva perfettamente la tecnica cinematografica, e poi per esempio perché in Too Much Johnson è fortissimo l’elemento comico come in nessun altro suo film.
Esteve Riambau: Sì, sono elementi complementari, filologici, per capire meglio Welles. Ma il Welles finito è quello che abbiamo, c’è poi l’altro Welles meno conosciuto, che è il Welles della radio, del teatro, della televisione, e infine c’è quello dei film non finiti. Tra parentesi, io ho avuto la fortuna di vedere un King Lear a teatro diretto da Ingmar Bergman, e dopo quel giorno i film di Bergman mi sono apparsi in modo completamente diverso. Perché ho visto che dietro c’era un universo Bergman tanto ricco che non ci si poteva limitare a dire: c’è il Bergman teatrale e il Bergman cinematografico. Non è assolutamente così: il Bergman cinematografico è così com’è perché dietro c’è il Bergman teatrale. Si può dire la stessa cosa ad esempio di Visconti e dell’opera. Ma Welles è il più grande di tutti, perché lui è radio, teatro, tv, libri e cinema. Quando mi chiedono di tenere delle conferenze o dei corsi su Welles, il mio terreno preferito è quello di Welles prima di Citizen Kane. Per me Citizen Kane non è l’inizio di una carriera, quanto il culmine di una carriera precedente, portata avanti con la radio e con il teatro. Citizen Kane è un film traversale in un modo incredibile perché è fatto da qualcuno che viene da mondi diversi e che applica alla tecnologia, alla macchina-cinema, delle idee, delle composizioni che gli arrivano da altri elementi. Allora Too Much Johnson è assolutamente interessante per vedere l’anello mancante nell’evoluzione di Welles e per verificare, innanzitutto, che una volta di più Welles era un bugiardo quando diceva di aver imparato come si faceva il cinema vedendo quaranta volte Ombre rosse. Non è vero, aveva visto già tutto prima. Too Much Johnson, infatti, è il film di un cinéphile, di qualcuno che ha visto l’espressionismo tedesco, l’avanguardia sovietica, il burlesque americano. Ed è il film di qualcuno che in quel momento utilizzava il cinema non come fine, ma come complemento di qualcosa che in quella fase della sua carriera era più importante per lui, il teatro. Allora Citizen Kane è insieme sia il culmine di questo percorso, sia l’inizio di una carriera cinematografica in cui – altra cosa interessante, fondamentale dal mio punto di vista – hanno convissuto anche altre esperienze, che si sono sviluppate parallelamente. Vale a dire che molti cineasti fanno una carriera di apprendistato per arrivare al cinema e, quando diventano cineasti, quello per loro è il massimo. Welles no, perché quando arriva al cinema, continua a fare teatro e radio. Lascia la radio soltanto quando comincia a fare televisione, senza mai dimenticare quale è il mezzo su cui lavora. Questo si vede molto bene nel famoso adattamento radiofonico di La guerra dei mondi, che ha senso soltanto con il mezzo della radio. Non può essere mai un film, non può essere una pièce teatrale, deve essere una trasmissione radiofonica. Welles sa in ogni momento qual è il mezzo più appropriato per ogni discorso e allo stesso tempo è un contaminatore di diversi linguaggi che utilizza simultaneamente e mai in senso piramidale.
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