Scream

Scream

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Scream torna in sala al Fantafestival di Roma in occasione dei venti anni dalla sua produzione, e a poco meno di un anno di distanza dalla morte di Wes Craven.

La morte è come un film

Woodsboro, California, 1996. La diciassettenne Casey Becker riceve una telefonata mentre è sola in casa di notte. Il suo interlocutore, dalla voce cupa e misteriosa, inizia a terrorizzarla facendole capire che la conosce e che è molto più vicino di quanto lei pensi; la ragazza lo avverte che sta per arrivare il suo fidanzato, Steven Orth. Quest’ultimo però è stato già aggredito e legato ad una sedia nel suo portico… [sinossi]

Drew Barrymore non è più la bambina di E.T. l’extraterrestre, e non deve preoccuparsi dell’innocuo alieno nell’armadio, ma dell’uomo mascherato nel patio. Un mostro ben più reale e ferale, che interroga prima di uccidere. Ma la realtà non è un liceo, e in Scream non si può essere promossi. Lo spiega con accuratezza lo stesso serial killer a Sidney/Neve Campbell: “se rispondi male, muori, e se rispondi bene… Muori lo stesso!”; Ghostface non ha morale, né dispensa alcun tipo, seppur grottesco, di giustizia. Uccide. Profana. Si diverte.
A un anno dalla morte di Wes Craven, che ha lasciato vuoto uno degli scranni più elevati e gloriosi dell’orrore cinematografico (rimangono George Romero, John Carpenter, Sam Raimi e Joe Dante, ma con quali prospettive produttive?), non si può fare altro che sfogliare l’album dei ricordi, ripassando con mestizia gli anniversari: quarantaquattro anni da L’ultima casa a sinistra, trentanove da Le colline hanno gli occhi, trentadue da Nightmare – Dal profondo della notte, ventotto da Il serpente e l’arcobaleno, ventidue da Nightmare – Nuovo incubo, venti da Scream. Venti anni. Uno degli ultimi veri babau apparsi sul grande schermo ha raggiunto e superato la maggiore età.

È probabile che gli appassionati di horror più giovani fruiscano della visione di Scream come puro divertissement metacinematografico. Assuefatti a una filmografia del terrore che con sempre maggiore insistenza punta sul riciclo consapevole o, nel peggiore dei casi, sullo scimmiottamento di materiali e idee preesistenti (fanno eccezione, fra gli altri, due titoli in sala in Italia questa estate: It Follows di David Robert Mitchell e The Witch di Robert Eggers), la generazione nata dopo la caduta del Muro di Berlino potrebbe faticare a leggere Scream in tutte le sue stratificate ramificazioni. Ad agevolare un’eccessiva facilità di interpretazione potrebbe essere anche il nome di Kevin Williamson alla voce “sceneggiatura”. Il creatore di Dawson’s Creek ha basato parte consistente della sua poetica sull’omaggio nostalgico al passato, in particolar modo con riferimento al teen-movie anni Ottanta di cui fu massimo esponente John Hughes. Da The Faculty di Robert Rodriguez al già citato Dawson’s Creek, passando per Cursed (sempre per la regia di Craven, e piuttosto sottostimato al pari di tutta l’ultima parte della sua filmografia, come My Soul to Take che di Scream è parente stretto) Williamson ha eretto monumenti al regista di Breakfast Club, Un compleanno da ricordare e Una pazza giornata di vacanza.
Un aggiornamento amoroso del teen-movie che trova in Scream e nel connubio con Craven l’apice, il punto di non ritorno, e non solo per l’età dei protagonisti, coetanei di Molly Ringwald, Anthony Michael Hall e Matthew Broderick; nelle dinamiche interpersonali, nei dialoghi, nell’idea stessa di conflitto generazionale – la furia di uno dei due assassini scaturisce dal rifiuto nei confronti della figura materna, traditrice e quindi eliminabile, ora che si è tratta fuori dalle regole sociali che il ruolo le “imporrebbe” –, si rintraccia il retaggio di quel cinema sull’adolescenza che segnò in maniera indelebile la Hollywood del decennio reaganiano.

Nel momento in cui Craven prende in mano il progetto, assumendo le responsabilità della messa in scena, Scream è una rilettura giocosa dell’horror politico degli anni Settanta ibridato con il teen-movie, come se Hughes si fosse messo in testa di dirigere uno slasher. I personaggi, quasi tutti adolescenti, devono fronteggiare un “mostro cinefilo”, e tra di loro passano il tempo a discutere di cinema. Quando Casey viene trovata impiccata a un albero e squartata, Tatum/Rose McGowan non trova meglio da dire a Sidney altro che “sembra di essere in un film di Wes Carpenter”, certificando in maniera definitiva il regno di appartenenza del film. Wes Carpenter, fusione tra due dei maestri indiscussi del genere, in grado di oltrepassare i confini tra timbriche, ritmi, ombreggiature.
Il rischio, se di rischio si può parlare, che Scream finisse relegato nel campo del puro divertissement ultra-pop, era molto forte. Non che Craven rifugga il ludus, tutt’altro! Scream propone un profluvio di citazioni (già la maschera dell’assassino rimanda all’Urlo di Edvard Munch), e gioca anche col suo stesso cinema, apparendo in un cameo nei panni di un bidello di nome Fred, inguainato nel maglione che rese celebre Freddy Krueger nella saga Nightmare. Eppure il meta-cinema nelle sue mani non appare mai sterile, abbozzato o semplice; lo aveva dimostrato nell’immediatamente precedente Nightmare – Nuovo incubo, nel quale il redivivo Krueger tornava a mietere vittime negli incubi, accanendosi su coloro che avevano lavorato nei film della serie. Là dove l’intercapedine tra sogno e realtà permetteva un punto di incontro mortifero tra le due dimensioni, il cinema con la sua ricreazione del reale e il set aggiungeva un ponte, un passaggio. Nel progredire della saga di Scream, nel terzo capitolo – il più debole, nel complesso – Sidney si troverà a fuggire dalle grinfie di Ghostface rifugiandosi nella sua casa di Woodsboro: peccato che non si tratti davvero della sua casa di infanzia, ma di un set hollywoodiano che la ricostruisce, modificando inevitabilmente alcune stanze e taluni percorsi.

In Scream l’apogeo del cinema nel cinema lo si tocca nella lunga sequenza della festa, destinata a tramutarsi in mattanza: in un gioco di immagine sull’immagine pressoché infinito Jamie Kennedy guarda partecipe in televisione Halloween di Carpenter, cercando di informare la protagonista che Michael, l’assassino, è alle sue spalle; anche Ghostface è alle spalle del ragazzo, che non se ne rende conto; l’immagine è però vista tramite una microcamera nascosta da Sidney e dall’operatore di un canale televisivo, appostati in un camioncino fuori dalla villetta, che a loro volta cercano di avvisare, emozionati, il giovane della presenza di Ghostface. Quando decidono di lasciare il camioncino per avvisarlo vis à vis, si rendono però conto di essere in differita di alcuni secondi. Ghostface è ora davanti a loro. Lo sguardo, eccitato e terrorizzato allo stesso tempo, non può evitare di fissare. L’immagine trionfa, e per questo non lascia vie di fuga. Nell’epoca della tecnocrazia la gioventù è mandata al macello proprio da quelle che considera come certezze occidentali: il telefono, la videocamera, la villa in periferia, lontana dal frastuono e dai pericoli dei centri abitati.
Torna dunque preponderante la lettura della società borghese di Craven, che attraversa come un filo rosso buona parte della sua filmografia, già a partire da L’ultima casa a sinistra. La medietà della borghesia è il ventre grasso dell’America, ma anche la sua parte molle. In famiglie disgregate, in comunità che si sono isolate per non dover patire il contagio delle classi meno fortunate – il tema sarà sviscerato in ogni suo dettaglio nella fiaba nera The People Under the Stairs, anno domini 1991 –, gli adolescenti sono le vittime predestinate di un’epoca barbarica, in cui si uccide per noia prima ancora che per vendetta o per rabbia. Non c’è necessità alcuna nel gesto belluino di Billy e Stu (“Qual è il tuo alibi, Stu?”, “Emulazione, sono troppo sensibile”, tra gli scambi di battute più brillanti di uno script che rimane impresso nella memoria), così come non c’è comunque anche in quella fauna pubescente che non arriverà mai a macchiarsi le mani di sangue ma non vede l’ora di poter assistere a un corpo sbudellato, o a un preside fatto a pezzi nella palestra della scuola.

Portatore di un sano sguardo morale, ma mai moralista, Wes Craven architetta Scream come una danza funebre dell’America post-Reagan, alla ricerca di una propria dimensione ma ancora scossa dai rigurgiti bacchettoni di quell’epoca liberalista in economia e reazionaria in tutto il resto. Sono le regole stesse del cinema di genere, seguite con ossequio dai fan più nerd della scuola, a rinchiudere una generazione nelle gabbie strette di una morale asfissiante. Per sopravvivere non si deve fare sesso, non ci si deve drogare o ubriacare, e ovviamente non si deve dire “torno subito”, perché da quel momento non si tornerà più indietro. Se non come cadavere.
In una generazione che fa del desiderio dell’atto e mai dell’atto in quanto tale il proprio credo, la ferocia sanguinolenta di un omicida seriale può apparire anche come una liberazione. Un fattore di crescita. Non è forse proprio la catena di omicidi a costringere Sidney a fare la pace con il passato turbolento della propria famiglia e con il lutto mai superato – perché non compreso – della morte della madre? Craven utilizza il trauma nella sua accezione più ampia, non esclusivamente negativa. Lo mette in scena, lo barbarizza e a tratti ridicolizza, ma non scavalca mai il paletto che divide l’horror dalla parodia di sé. Brutalizza i volti più graziosi e televisivi della generazione X, trasformando la Courteney Cox di Friends in una giornalista senza scrupoli, facendo fuori l’enfant prodige Drew Barrymore, costringendo la Neve Campbell di Party of Five a subire una minaccia costante, spada di Damocle pronta a mozzarle la testa. Si permette anche di riesumare dall’album dei ricordi (di una generazione immediatamente precedente) Henry Winkler, il Fonzie di Happy Days, infilandolo nei panni del preside, lui che fu celebrato come eroe del microteppismo innocuo e blandamente anti-sistema.
Scream fu senza dubbio il primo film a comprendere la deriva che gli anni Novanta portavano con loro, con un post-moderno diventato pane quotidiano e svuotato di ogni reale senso. Fa ridere, ed è appassionante anche alla ventesima visione (una per anno?), ma riesce a coniugare un forte senso del popolare con una stratificata riflessione teorica sul senso dello sguardo, sulla macchina-cinema, e sul declino di un impero americano sempre più accartocciato su se stesso. Incapace di creare davvero qualcosa. Lo dice dopotutto Billy Loomis – il cognome, per il godimento dei cinefili, è lo stesso di Donald Pleasence in Halloween, a sua volta omaggio a uno dei personaggi di Psycho di Alfred Hitchcock – con chiarezza: “I film non fanno nascere nuovi pazzi, li fanno solo diventare più creativi”…

Info
Il trailer di Scream.
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