The Reconciliation

The Reconciliation

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Girato con maestria, The Reconciliation del polacco Maciej Sobieszczański si pone come ambizioso affresco storico ma finisce per disperdersi parzialmente nei risvolti di un banale triangolo amoroso. Nel concorso lungometraggi al Trieste Film Festival.

Riconciliarsi è un po’ morire

Slesia, 1945. Sul sito dell’ex campo nazista di Auschwitz Birkenau, i servizi dell’ufficio di sicurezza comunista creano un campo di lavoro per tedeschi, slesiani e polacchi. Nel tentativo di salvare Anna, la ragazza polacca che ama, Franek va a lavorare nel campo in cui è imprigionata. Non è a conoscenza del fatto che il suo amico tedesco Erwin, anch’egli prigioniero, sia innamorato di Anna da anni… [sinossi]

Da un punto di vista tecnico-produttivo, il polacco The Reconciliation – selezionato nel concorso lungometraggi alla 29esima edizione del Trieste Film Festival – appare decisamente un gran film, anche in considerazione del fatto che il regista, Maciej Sobieszczański, è appena all’opera prima. Un film che, per la cura della messa in scena, per l’asprezza di certe situazioni girate in continuità, per il coraggio di rappresentare certe azioni negative del protagonista evidenziandone le ambiguità comportamentali, ci rimanda per opposizione a tutta la mediocrità del sistema cinematografico italiano, incapace ormai da decenni di osare in operazioni siffatte. Allo stesso tempo, però, The Reconciliation – pur confermando la salute del cinema del suo paese – rischia di incorrere nel problema opposto: l’essere così tanto soddisfatto della sua perfezione da accontentarsi di questa, andando a disperdere l’urgenza del racconto.
La questione si pone in maniera particolare al cospetto della particolare vicenda storica che il regista ha scelto di raccontarci, quella del riutilizzo di un campo di prigionia collegato ad Auschwitz da parte di ufficiali comunisti polacchi che con ciò, alle battute finali della Seconda Guerra Mondiale, vogliono vendicarsi dei tedeschi che non sono riusciti a tornare in patria. Una sorta di legge del contrappasso per cui le vittime diventano carnefici, gli ebrei (e un ufficiale si presenta in quanto tale proprio all’inizio del film) possono pretendere di avere una – sia pur parziale – giustizia per quanto subito.

Di fronte a un tema così delicato, Sobieszczański mostra di avere in principio le idee chiarissime, illustrandoci delle location e delle situazioni di grande forza evocativa e riprendendole con uno stile asciutto e secco, capace di lasciare però campo aperto anche a sprazzi di visionarietà (come ad esempio nell’inquietante sentiero che il protagonista percorre costeggiato da rocce dall’apparenza lunare). Il riferimento, quantomeno visivo, alla ‘giustezza’ di messa in scena di Il figlio di Saul – confermata anche dal pervasivo uso della macchina a mano – sembra d’altronde abbastanza palese. Il problema è che poi The Reconciliation, un po’ come succedeva proprio a Il figlio di Saul anche se in maniera diversa, disperde le sue potenzialità affondando il racconto in meccaniche melodrammatiche che appaiono decisamente esornative e fanno perdere la dimensione dell’affresco storico a favore di un triangolo amoroso ben poco interessante. Veniamo così a sapere che il nostro protagonista non ha altro obiettivo se non quello di salvare la donna di cui è innamorato, che però è a sua volta infatuata di un altro prigioniero.
L’introduzione dell’elemento sentimentale in una situazione siffatta finisce allora per distoglierci dalla prospettiva ribaltata dei campi di prigionia e ci costringe a concentrarci su una storia d’amore impossibile quanto eternamente prevedibile nelle sue meccaniche di illusione/disillusione, tanto che questa storia – per la sua ovvietà – potrebbe essere benissimo ambientata nello scorcio di una qualsiasi congiuntura della Storia dell’umanità. E, dopo aver eluso abilmente spiegazioni e motivazioni nella prima parte di The Reconciliation, Sobieszczański si sente alla lunga anche in dovere di motivarci tutto, come ad esempio il rapporto del protagonista con sua madre, all’inizio semplicemente alluso e poi più volte inutilmente sottolineato. La stessa dimensione della violenza, che pure spesso si manifesta in modo inaspettato (ed è resa, benissimo, in un paio di piani-sequenza), non riesce in fin dei conti a farsi discorso: è chiaro, The Reconciliation ci vuole dire che, in una situazione estrema come quella dei campi di prigionia, tutti perdono la loro umanità, dall’ufficiale ebreo al giovane militare innamorato, passando per il prigioniero che per salvare la pelle alla sua ragazza non esita a denunciare il prossimo. Ma questo tema scorre troppo sottotraccia, non sfruttato a dovere, e soprattutto crolla di fronte alla stessa figura della ragazza, troppo angelica e troppo vittima per essere credibile, continuamente violentata e testardamente tetragona rispetto a quanto le succede.

Dunque, è vero che The Reconciliation è la dimostrazione di un cinema tecnicamente solido e maturo, ma è allo stesso tempo la prefigurazione di un rischio: avere a disposizione tutti gli strumenti e le abilità per dire delle cose tanto da finire per innamorarsi troppo di se stessi e del meccanismo che si è messo in piedi e un po’ meno della necessità del racconto.

Info
La scheda di The Reconciliation sul sito del Trieste Film Festival.
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