My Brother’s Name is Robert and He is an Idiot

My Brother’s Name is Robert and He is an Idiot

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Nonostante banalizzi come un pretenzioso Bignami l’empirismo di Brentano e la ricerca dell’essere e della sua temporalità secondo Heidegger, Philip Gröning porta in concorso alla Berlinale un film che in potenza non sarebbe nemmeno privo di spunti di interesse e stratificazioni. Ciò che però rende inaccettabile My Brother’s Name is Robert and He is an Idiot è lo sguardo dell’autore, che nel profondo odio nei confronti dei suoi personaggi e della loro superficialità lascia da parte ogni tipo di etica cinematografica scegliendo la strada di un cinismo impietoso e programmaticamente disturbante, gaudente nell’estetizzazione della violenza e della vanità umana.

My director’s name is Philip and he is black-hearted

Estate. Nel bel mezzo di campi di grano, accanto a una stazione di servizio, Robert sta aiutando la sorella gemella Elena a prepararsi per il suo esame finale di filosofia scolastica. Vivono insieme da sempre quasi in un mondo a parte, a volte teneri l’uno con l’altro, altre piuttosto violenti. A Robert piace bere birra e parlare di Brentano e Heidegger: “Il senso dell’essere è il tempo”. Alcuni rituali, i giochi e l’amore per le scommesse li connettono. Elena è gelosa della sua migliore amica e vuole sapere se Robert ha fatto sesso con lei ma lui non risponde. Lo sfida a una scommessa: “Copulerò con qualcuno – chiunque – prima di laurearmi”. Se Elena dovesse perdere, lui otterrà la VW Golf appena comprata dalla sorella. Se dovesse vincere, lui dovrà chiederle qualcosa, non importa cosa, ma non può essere un oggetto. Sono rimaste 48 ore per parlare di filosofia e vincere una scommessa. Il loro giocare si fa sempre più serio e la fine della loro innocenza sempre più vicina… [sinossi]

No, il principale problema di My Brother’s Name is Robert and He Is an Idiot non è contenutistico, non è formale, e forse non è nemmeno narrativo. È un qualcosa di molto più grave, di molto più profondo, che viene ben prima delle banalizzazioni delle teorie di Franz Brentano e soprattutto di Martin Heidegger, Essere e tempo, su cui Philip Gröning innesta, fra rari spunti di interesse inframezzati da apici di spocchiosa pretenziosità, dialoghi, narrazione e senso del film. È una questione di sguardo, di malcelato disprezzo nei confronti dei protagonisti, di programmatica inumanità di un autore che si sente superiore alle bassezze di chi viene messo in scena e che gode a trascinarlo progressivamente in un baratro morale senza via d’uscita, sempre più nero, sempre più violento, sempre più riprovevole. Gröning, nella sua freddezza programmatica e nella sua volontà di essere respingente e provocatorio a ogni costo, punta il dito, accusa, lascia macerare i protagonisti fino alla loro completa putrescenza e poi, non ancora soddisfatto, li abbandona a loro stessi, al loro egoismo, al loro vivere come un gioco anche il sesso, lo stupro, l’omicidio, l’incesto, l’orrore.
Prima di tutto c’è il vuoto, c’è la quiete prima della tempesta: un weekend, una stazione di servizio come non-luogo per antonomasia nel quale tutti passano e nessuno si ferma, i prati, il lago, i quaderni di appunti di Elena e Robert, fratelli gemelli “idioti” già dal titolo, che vivono da sempre in una sorta di bolla nella quale esistono solo loro e il resto del mondo non conta, è solo un qualcosa da sfruttare. Elena, con l’aiuto del fratello, sta preparando l’ultimo esame di filosofia, che da una parte sancirà il suo definitivo ingresso nell’età adulta e dall’altra non potrà che separare per la prima volta i due gemelli, uniti nel loro rapporto di simbiosi ma destinati a crescere e ad affrontare le rispettive diverse scelte di vita. Parlano di esistenzialismo con la stessa superficialità con la quale accendono per gioco la prima sigaretta, pongono distinguo fra percezione e realtà con la stessa vacuità con cui giocano con le pistole ad acqua, dicono di cercare la verità con la stessa frivolezza con cui scorrazzano per i campi. Il loro rapporto è fatto di eccessi, da una parte la tenerezza e la completa appartenenza l’uno all’altro, dall’altra i continui litigi, i dispetti, le violenze. C’è una curiosità morbosa fra di loro, una costante tensione incestuosa, la gelosia di Elena che vorrebbe sapere se il fratello è stato a letto con la sua migliore amica Cecilia, lui che glissa, lei che propone una scommessa: se Elena non riuscirà entro il weekend trovare un uomo con il quale avere un rapporto sessuale Robert vincerà la Golf che la ragazza sta per acquistare, se Elena riuscirà a trovarlo il fratello sarà autorizzato a chiederle ciò che vuole, a patto che non sia un oggetto.

Inizia come un romanzo di formazione bucolico My Brother’s Name is Robert and He Is an Idiot, fatto di mani nella terra e di formiche che camminano sui corpi, fatto di carezze e di grida, fatto di tensione incestuosa e di gelosie, fatto di bagni nel lago e di momenti di isteria. A Gröning, però, non interessa affatto la vitalità di Elena e Robert, interessa solo il loro vuoto come proiezione di quello della società, della crisi dei valori, della violenza insita nella natura (malvagia, evidentemente) dell’uomo, e inevitabilmente dopo la prima ora il film sarà destinato a scartare, a virare verso l’assalto dell’area di servizio come attualizzazione di quell’empirica esperienza teorizzata da Brentano. Sarà il tempo della criminalità, delle torture, di una carnalità deviata, dell’omicidio perpetrato sempre come se fosse un gioco, con la pistola vera trovata sul fondo della cassa della pompa di benzina che sostituisce i liquidator. È inumanità per dimostrare l’esistenza dell’umanità, disturbante paradosso e respingente presagio, filmato da Gröning con occhio cinico e impietoso, quasi pornografico nella sua respingente estetizzazione del deterioramento umano e della violenza, profondamente insincero nelle sue sfocature e nei suoi spari alle auto che passano.

Fra gli echi (stonati) di Pierrot le fou (Il bandito delle 11, 1965) che vorrebbero ricontestualizzare ai giorni nostri quella stessa vacuità della Francia anni Sessanta che aveva portato la coppia godardiana alla vita criminale e le sterminate pianure così simili a quelle in cui un’altra coppia di criminali per caso aveva segnato l’esordio di Terrence Malick con Badlands (La rabbia giovane, 1973), il principale riferimento per lo sguardo di Gröning parrebbe voler essere quello di Michael Haneke; ma dove la freddezza entomologica dell’autore austriaco, spesso ribaltata in finali nei quali invece fa capolino l’umanità residua dei pochi innocenti, è figlia di un’analisi sociale antiborghese e lanciata verso ben specifici obiettivi, quella di Gröning rimane semplicemente sospesa fra una generica misantropia e una vana e cinica provocazione che nulla c’entra con la giusta distanza, e anzi si avvicina ai dettagli e alla vessazione, insopportabilmente ammiccante nel suo sogghignare della propria indisponenza.
Pretenzioso nei suoi intrecci filosofici ridotti a Bignami nei dialoghi e a meccanica rielaborazione nella struttura narrativa, prolisso nelle sue ingiustificate tre ore e profondamente sleale nella sua cattiveria gratuita e nel suo viscerale odio nei confronti dei protagonisti, My Brother’s Name is Robert and He Is an Idiot è un film che in un certo senso finisce prima di iniziare, issato su un pulpito dal quale sentenzia sulla malvagità e sulla vanità egoistica dell’uomo mentre, prevedibili anche in ordine sin dalla sinossi, le angherie perpetrate dai fratelli ai malcapitati astanti si avvicendano una dopo l’altra sullo schermo come una spirale di atrocità, fino alle altrettanto prevedibili, e forse ancor più inaccettabili, impunità e separazione finale.

Molto più che nel precedente e già problematico La moglie del poliziotto, a Philip Gröning importa solo rinchiudere i suoi personaggi in un cubicolo di violenza altezzosa che rinuncia a qualsivoglia tipo di etica cinematografica, disinteressandosi del tutto alla loro sfera sentimentale o peggio ritenendoli incapaci di una sfera sentimentale, alla stregua di squali guidati dall’odore del sangue di un incesto sempre voluto, sempre sognato, ma che potrà arrivare solo nella colpa e nell’ignominia, nella criminalità e nella bestialità più pura, resa forse ancora più grave dal non rendersene nemmeno conto.
Basterebbe, per riassumere la disonestà di My Brother’s Name is Robert and He Is an Idiot, l’utilizzo della «canzone preferita» di Elena, così musicale nel suo francese, così dolce nelle sue parole d’amore, fatta prima ascoltare alla cavalletta tenuta in un pacchetto di sigarette che verrà lanciata in acqua ma riuscirà a salvarsi nell’unico istante di vita che vince contro la crudeltà sprezzante, e poi a Erich, uno dei due gestori dell’area di servizio, quello che verrà assaltato, legato, imbavagliato e in sostanza stuprato da Elena per vincere la scommessa dopo che lei stessa lo aveva già sedotto e poi violentemente rifiutato, quello che non riuscirà a salvarsi, ucciso prolungandogli il più possibile l’agonia, costringendolo a soffrire il più possibile nelle violenze psicologiche di chi sta per sparare ma vuole godersi fino alla fine gli istanti di assoluto dominio e controllo su un altro essere umano.
Il desiderio di Robert, dopo aver perso la scommessa, sarà proprio la morte di Erich, e la sorella vincitrice, come promesso, eseguirà la sua volontà fra auricolari e atroci attese, fra colpi sparati alla cassetta del water prima di mirare alla testa e inammissibili sguardi in macchina che sembrano quasi cercare un’impossibile approvazione da parte del pubblico, trovando in un certo senso quella del regista, quella di chi, nelle sue spesso confuse derive filosofiche ed esistenziali, passa tutto il film a distinguere corpo e mente, percezione e realtà, essenza ed esistenza, tempo e spazio, fato e responsabilità, infarcendo la narrazione di simboli e citazioni con i quali negare la stessa esistenza della follia e tentare di nascondere quanto il suo sguardo sia retrivo, sadico, insopportabilmente crudele.
E forse non è un caso in tal senso, pur consapevoli della natura sediziosa di questa osservazione, che l’altro gestore della pompa di benzina, l’unico che si salverà dal weekend di ordinaria follia della coppia di fratelli, si chiami Adolf, nome ben più che evocativo e che di certo non è (più) comune nella Germania degli ultimi 60 anni. Ma questa preferiremmo considerarla un’altra storia, un qualcosa a cui nemmeno si vorrebbe pensare. Un qualcosa di fronte al quale non avrebbe nemmeno senso parlare d’altro, di fronte al quale la bella estetica delle inquadrature non esisterebbe più, e di fronte a cui le perplessità sull’esistenzialismo riscaldato al microonde o sulla gestione narrativa diventerebbero meri orpelli ben lontani dal primo piano. Il vero problema di My Brother’s Name is Robert and He Is an Idiot, ciò che lo rende un film profondamente irritante, impresentabile e inaccettabile, è di natura prettamente etica. È una questione di sguardo, è una questione politica, è una questione umana. E questo è un qualcosa sul quale non si dovrebbe mai transigere.

Info
La scheda di My Brother’s Name is Robert and He is an Idiot sul sito della Berlinale.
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