The Blood of Wolves

The Blood of Wolves

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Presentato al Far East Film Festival 2018, The Blood of Wolves cerca di rispolverare il genere yakuza eiga, con una guerra tra clan e un “cattivo tenente”, spingendo all’estremo gli effetti gore. Nella migliore tradizione del genere di Kinji Fukasaku, guardando anche ai gangster movie di Scorsese e compagnia.

Perle e porci

Hiroshima, 1988. Il poliziotto corrotto Ogami, pur con il piede in più staffe, sta cercando di fermare un’annosa guerra tra bande rivali con metodi che superano i limiti della legalità. Il suo collega ne è disgustato ma i risultati arrivano… [sinossi]

Un uomo viene torturato da un gruppo di sicari yakuza in una porcilaia, fino al punto da fargli ingerire con forza degli escrementi suini. Un incipit programmatico scioccante, ma siamo lontani comunque dalla scena di Novecento dove Donald Sutherland veniva bersagliato di cacca equina, così pure dal finale di Pink Flamingos. La scatologia qui passa per numerosi stacchi, dalla defecazione all’ingurgitare, il che dovrebbe garantire circa la non genuinità del prodotto finale. E allo stesso tempo segnare il carattere artificioso e sopra le righe di The Blood of Wolves di Shiraishi Kazuya, presentato al Far East 2018, un film che si spinge tra pulp e gore, che non risparmia nulla allo spettatore, tra torture, asportazioni su corpi con effetto Un Chien Andalou, ritrovamenti di cadaveri smembrati e in stato di avanzata decomposizione, continui riferimenti a testicoli, clitoridi e peli pubici.

The Blood of Wolves si vuole porre come uno yakuza eiga crepuscolare, cercando di rispolverare un genere glorioso del cinema nipponico che sopravvive solo o in una dimensione autoriale, come quella di Kitano, o in una caricaturale e demenziale, quella di Miike o Sono. Qui abbiamo l’ambientazione a Hiroshima, sfruttatando il mare interno e le isole, accentuando la dimensione materica, le scazzottate sotto la pioggia, e usando l’accompagmento, in una scena, dei tradizionali percussionisti del taiko. E poi lo sfondo di gang rivali sul punto di entrare in guerra. Sono delle strizzate d’occhio alle Battles Without Honor and Humanity di Kinji Fukasaku che rappresentano l’apice del genere negli anni ’70. L’origine delle guerre, raccontate nell’incipit del film, tra le due gang mafiose risale proprio a quegli anni per confluire nel 1988, anno in cui il film è ambientato. Non ci sarebbe nessuna giustificazione per retrodatare la vicenda comunque contemporanea – l’unico elemento vintage è rappresentato dalle videocassette e dalle relative immagini sgranate dalle registrazioni delle telecamere di sorveglianza – se non quella di sottolineare l’anacronismo di questo genere di film.

Alcuni momenti, come l’efferatezza e la superficialità di un omicidio inutile fanno venire in mente certe esecuzioni per puro sfizio di Quei bravi ragazzi o Casinò, mentre la figura centrale del poliziotto Ogami rimanda pure ai cattivi tenenti del cinema hollywoodiano. La figura del poliziotto dai metodi tutt’altro che ortodossi, all’interno di forze dell’ordine che agiscono nulla più che come un’ulteriore gang («Siamo poliziotti e possiamo fare il cazzo che ci pare»), è magistralmente resa da un Koji Yakusho quanto mai sfatto e sciatto, dalla barba incolta, disordinato, sgradevole, che incarna le mille figure di quel tipo, detective hardboiled compresi. L’operazione The Blood of Wolves, per il regista Shiraishi Kazuya, è in definitiva quella di rievocare quella catena alimentare – il più grande mangia il più piccolo –, quella ecologia della sopravvivenza urbana propria dello yakuza eiga classico, puro. Restituendone tutta la torbidezza, il marciume e anzi amplificando questi ingredienti per un pubblico contemporaneo cui la soglia di sgradevolezza e inaccettibilità si è elevata ed è più difficile da superare.

Info
La scheda di The Blood of Wolves sul sito del FEFF 2018.
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