The Roundup

The Roundup

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The Roundup (Akasha è il titolo originale) segna l’esordio al lungometraggio di Hajooj Kuka, quarantaduenne regista sudanese che racconta la guerra civile in atto nella sua nazione attraverso la lente della commedia, del mascheramento e del paradosso. Alla Settimana della Critica di Venezia.

Soldati fanfaroni

Adnan è un rivoluzionario sudanese considerato eroe di guerra. L’amore che prova per il suo fucile AK47 è pari solo a quello per Lina, la sua paziente fidanzata. Quando Adnan in licenza ritarda a rientrare all’unità militare, il comandante Blues lancia una kasha: una retata per arrestare i soldati sfaticati che mancano all’appello. Colto di sorpresa, Adnan si dà alla fuga con l’amico Absi. La strana coppia studia tutti i modi per riunire Adnan con la sua arma – e con Lina – e per sfuggire ai compagni dell’unità militare. Per ventiquattr’ore, attraverso una serie di eventi caustici e divertenti, esploriamo la vita e l’ideologia delle zone del Sudan controllate dai ribelli. [sinossi]

The Roundup, “retata”, è la traduzione letterale dell’originale Akasha, e sta a rappresentare un momento ben preciso nella vita dei guerriglieri sudanesi: la fine della stagione delle piogge porta via con sé, oltre al fango e all’acqua, anche la tregua che le parti in lotta sono costrette a mettere in atto. Si torna alla guerra, si torna alla paura di sparare e di essere sparati, dei bombardamenti degli aerei dell’esercito di Omar al-Bashir, all’uccisione del fratello. Parte da questo l’esordio alla regia di un lungometraggio di finzione del quarantaduenne Hajooj Kuka, primo titolo a concorrere per la vittoria della trentatreesima edizione della Settimana Internazionale della Critica. Parte da questo e a questo arriva, sviluppando la propria narrazione in un unico giorno, e nel racconto di un unico evento: il tentativo di evadere dalla akasha di Adnan e Absi. Il primo è un soldato un po’ fanfarone, che è considerato un eroe di guerra dai suoi concittadini per aver abbattuto un drone nemico con un solo colpo di proiettile esploso dal suo amato AK47. Adnan è così legato al suo fucile da averle dato un nome femminile – forse memore della lezione impartita dal Sergente maggiore Harman in Full Metal Jacket. Il suo kalashnikov si chiama dunque Nancy, e secondo quel che dice Lina (la donna che ama e che, sempre a suo dire, vorrebbe sposare) il nome è quello di una precedente passione amorosa di Adnan. Questo soldato sbruffone e impigrito dalle comodità, che tanto sembra appartenere alla commedia classica, a partire ovviamente da Plauto, è accompagnato nelle sue scorribande, in fuga dai guerriglieri che vorrebbero riportarli sulla (non) retta via, da Absi, che canticchia Bob Marley, preferisce una cetra al fucile e non ha alcuna intenzione di uccidere altri esseri umani.

È sempre più raro nei festival internazionali imbattersi nel cinema africano; l’onda lunga delle rivoluzioni post-coloniali si è esaurita, il continente versa in gravissime difficoltà economiche e sociali – e i barconi di disperati che vengono trattati come carne da macello da un occidente impaurito ed egoista sono solo la punta dell’iceberg – e in pochi sembrano ancora interessati a ciò che viene prodotto dall’altra parte del Mediterraneo. Pochi autori, sempre più legati a doppio nodo alla produzione francese, riescono a emergere, e poco per volta si sta perdendo contatto con una cinematografia che ha sempre dimostrato una vitalità fuori dal comune.
Ne è un esempio perfetto proprio The Roundup, dove viene presa di petto una delle aree di crisi più note (la guerra civile in Sudan è materia da libri di storia, visto che pur mutando faccia di volta in volta si protrae da oltre sessant’anni) senza in nessun modo scadere nella retorica – quella sì tutta occidentale – terzomondista. Kuka svicola fin dalle primissime sequenze, evitando ogni possibile punto di contatto con uno sguardo accomodato, e con la visione più semplice. Senza evadere necessariamente dalle gabbie del realismo The Roundup si connota da subito come una commedia, non poi così dissimile – oltre alla già citata consonanza con l’opera di Plauto – da quanto si produsse in Italia dall’inizio degli anni Cinquanta per oltre due decenni. Adnan e Absi potrebbero benissimo avere i volti di Alberto Sordi o Vittorio Gassman, e nessuno se ne stupirebbe. L’unica differenza sta nel fatto che i due attori sudanesi (Kamal Ramadan e Ganja Chakado) sono esuli in un campo profughi in Uganda – com’era la solfa fascistoide che recita “vengono tutti da noi”? – e non hanno neanche ottenuto il permesso per raggiungere il Lido di Venezia. Kuka ha il coraggio di costruire una commedia grottesca e non priva di cattiveria su qualcosa che è ancora in atto, e che è anche sulla pelle dei suoi stessi attori protagonisti. Una scelta che connota ulteriormente un cinema libero, e perfino sfrontato.

Tra il blu del cielo e il terriccio rosso che tanta parte ha nell’immaginario del cinema africano The Roundup si muove con grazia felina, sornione e pronto all’attacco: costruisce sequenze dal sapore antropologico, e poi ne prende le distanze attraverso un gioco di mascheramento (anche narrativo, visto che uno dei segmenti più rilevanti del film vede i due fuggiaschi intenti a farsi passare per donne, nel più classico schema del ribaltamento della prospettiva tipico della commedia) che mantiene in bilico il tutto, tra reale e immaginifico, tra allucinatorio e comico. Quel che ne viene fuori è un fermo immagine su un popolo in lotta ma in grado di mantenere una normalità del gesto spiazzante, fino quasi a farsi doloroso nonostante il tono di The Roundup non viri mai verso tinte drammatiche o tragiche. Resoconto di una giornata particolare, The Roundup è un esordio affascinante e giocoso, che riporta alla mente l’epoca in cui il cinema africano sembrava poter conquistare l’occidente, in una rivincita sontuosa. Così non fu. Purtroppo.

Info
La scheda di The Roundup sul sito della Settimana della Critica.
  • The-Roundup-2018-Hajooj-Kuka-01.jpg
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