Tutte le mie notti

Tutte le mie notti

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Esordio nel lungometraggio di finzione di Manfredi Lucibello, Tutte le mie notti testimonia di un interessante approccio al genere, nel segno dell’essenzialità, che tuttavia non esclude una certa eleganza formale.

Nero mutevole

In fuga, di notte, per le strade di una cittadina di mare, la giovane Sara viene soccorsa da una donna di nome Veronica, che la conduce in quella che le dice essere la sua casa. Gradualmente, le due donne scopriranno di più l’una sull’altra, e sugli avvenimenti di quella notte… [sinossi]

Dopo due documentari, l’esordio nel lungometraggio di finzione del fiorentino Manfredi Lucibello si muove nel segno del cinema di genere. Un esordio, questo Tutte le mie notti, che, nato sotto l’egida dei fratelli Manetti (qui produttori) sfrutta l’unità di tempo e di luogo per imbastire un atipico ed essenziale thriller. Proprio l’essenzialità narrativa è la cifra stilistica principale del film di Lucibello, che muove da uno spunto semplice, diremmo scarnificato, che chiama lo spettatore ad assistere a una vicenda in cui ha pochissimi punti di riferimento: due donne e una gigantesca villa, insieme a un evento oscuro che ha coinvolto, poche ore prima, la più giovane delle due. Una voce al telefono (che presto assume il volto e il corpo di Alessio Boni), insieme ai ricordi dapprima frammentari, poi gradualmente più puntuali e precisi, del personaggio interpretato da Benedetta Porcaroli, guida lo spettatore nel dedalo della sceneggiatura, che ricostruisce a ritroso un evento destinato a cambiare per sempre la vita di entrambe le donne. Sullo sfondo, il ricordo e le molte facce della verità, ingannevole e mutevole come gli angoli di una casa che sembra nascondere segreti e insidie in ogni suo recesso.

Fa venire in mente persino Dario Argento, il prologo di Tutte le mie notti, col personaggio interpretato (bene) dalla Porcaroli braccato in una minacciosa cittadina notturna, le livide luci urbane, la macchina da presa che la scruta seguendola da presso, suggerendo incorporee minacce. Le architetture della villa in cui si svolge gran parte dell’azione rimandano a Tenebre, agli asettici spazi in cui si era manifestata, nel finale del film argentiano, la follia del killer, a un’ingannevole ariosità che cela, per citare un altro maestro e un’altra opera al femminile, “il buio nella mente”. Ma non c’è l’esplicitazione della morte, in Tutte le mie notti, quanto piuttosto la sua traccia, il suo sentore, una sua vaga promessa. La ricostruzione della vicenda che ha (ri)portato nella villa il personaggio di Sara si muove sul crinale della memoria e della sua mutevolezza, sospesa tra i dettagli celati e quelli deliberatamente rimossi, tra diverse versioni della verità (corrispondenti, ognuna, ai tre personaggi principali della storia) che solo nel finale si compongono in un quadro completo. Nel mentre, si sviluppa una conflittuale e contraddittoria solidarietà tra le due donne protagoniste, ognuna coi propri non detti, ognuna legata, in modo diverso, al personaggio interpretato da Boni e agli eventi avvenuti qualche ora prima.

Approdato in sala dopo il passaggio all’ultima Festa del Cinema di Roma, Tutte le mie notti si giova di una struttura thriller che viene dipanata in un racconto – volutamente – immobilizzato, affidata ai dialoghi e al lento svelamento dei personaggi, a un “noir dell’anima” (per usare una vecchia locuzione) le cui conseguenze non risultano meno profonde e durature delle declinazioni più fisiche del genere. La sceneggiatura volge a proprio favore l’essenzialità del racconto, facendo scaturire la tensione dalle cangianti e ambigue interazioni tra le due donne, e utilizzando in chiave simbolica le luci, le ombre e gli spazi della villa che è teatro della storia. In questo senso, la regia accetta senza timore il rischio di scivolare nel formalismo (riuscendo quasi sempre a dribblarlo), facendo frequente uso di filtri cromatici e specchi, alludendo a ciò che non viene mostrato (il dramma pregresso, di cui il personaggio di Sara è stato testimone) tramite il rimando quasi onirico, suggerito indirettamente dal luogo che ne è stato testimone. Riflettendo anche, come nello specchio infranto che appare in una sequenza, una personalità “liquida” e in evoluzione come quella della protagonista; unitamente a quella, solo apparentemente più strutturata, della sua carceriera/compagna col volto di Barbora Bobulova.

Interessante nel suo portare un approccio al genere che è insieme più essenziale, e maggiormente ragionato, rispetto ai suoi epigoni più recenti (senza per questo risultare inutilmente cervellotico), Tutte le mie notti trova i suoi limiti in qualche passaggio inutilmente didascalico – un filmato registrato su un cellulare, un finale in cui compare una voice over che ci è apparsa superflua e invadente –, e in un’evoluzione forse troppo rapida, e poco spiegata, del rapporto tra le due protagoniste; risultato, quest’ultimo, da attribuire anche al ridotto minutaggio, che si attesta sotto gli ottanta minuti. Va comunque apprezzata la capacità della sceneggiatura di cesellare un triangolo narrativo che sfugge agli schemi, di cui solo negli ultimi minuti si colgono gli effettivi contorni; innestato su un canovaccio noir che – una volta ricostruito – risulta più classico, e interno ai codici del genere, di quanto non si potesse pensare. Un approccio che, mettendo insieme capacità di scrittura e funzionalità di regia, testimonia di un giovane cineasta il cui lavoro suscita una giustificata curiosità.

Info
Il trailer di Tutte le mie notti.
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