Intervista a Béla Tarr

Intervista a Béla Tarr

L’occhio della balena, con la sua purezza arcaica, il moto perpetuo della teleferica che porta il carbone, le meccaniche celesti interrotte da un’eclissi messa in scena da una danza di ubriaconi in un bar, il cavallo che Nietzsche ha visto a Torino in un inarrestabile galoppo. Sono immagini iconiche del cinema dell’ungherese Béla Tarr, uno dei più originali, e acclamati registi contemporanei, che ha speso la sua opera in un’esplorazione metafisica della condizione umana, indagando il vibrare del mondo, le armonie ancestrali, l’alternarsi nella storia umana di civiltà e barbarie.
Béla Tarr si è diplomato nel 1981 all’Academy of Drama and Film in Budapest e ha fatto parte inizialmente del collettivo Béla Balász. Col tempo ha sviluppato una sua cifra stilistica fatta di immagini in bianco e nero contrastato, di lunghi piani sequenza di un’ipnotica e inquietante lentezza, di tempi dilatati e silenzi. Il suo cinema è un nido famigliare, realizzato con un nucleo di sodali collaboratori, il romanziere e sceneggiatore László Krasznahorkai, il compositore Mihály Víg e la moglie Ágnes Hranitzky. Ritiratosi ormai dalle scene, Tarr si dedica alla pedagogia, collaborando con la Sarajevo Film Academy in seno alla quale ha creato una film factory.
Abbiamo incontrato Béla Tarr durante L’immagine e la parola 2019, la manifestazione del Locarno Festival che ha invitato il Maestro a tenere una masterclass e un workshop con giovani filmmaker che realizzeranno un film sulle montagne svizzere.

Nel 2017 hai realizzato un’istallazione presso l’Eye di Amsterdam che iniziava con del filo spinato per finire con il filmato di un ragazzino triste che suona la fisarmonica. Sono immagini che ci richiamano all’Europa di oggi e alla sua pericolosa deriva?

Béla Tarr: Era un’esposizione in otto capitoli, in otto stazioni. La prima riguardava questa recinzione. Se sei in Ungheria e ti avvicini al confine, puoi vederla. Io ero nella Germania Ovest quando è caduto il muro, quella notte. Era una strana sensazione, ero felice perché un periodo buio e triste della storia europea era giunto al termine. Non avrei mai pensato che la mia patria avrebbe issato una barriera contro i poveri e gli affamati in fuga dalla guerra. No! Sto ancora protestando per tutto questo, non riesco a credere che possiamo essere così disumani, così terribili. Una schifezza! E sai qual è il problema? Che tutto quello che sta succedendo è nel nome del Cristianesimo. Ma questo, nella Bibbia stessa, dice che bisogna essere nutrimento per gli affamati, casa per chi non ce l’ha, acqua per gli assetati. Devi trattare le persone da esseri umani. È stato davvero terribile per me. Poi entri nell’Unione Europea, il resto dell’installazione, gli altri capitoli della storia che mostrano quello che succede all’interno della recinzione. Puoi vedere la povertà, lo stato in cui sono ridotte le persone e le vite distrutte. Ho cercato di porre tutto sotto una luce diversa, le immagini, i vari frammenti del mio cinema. Sentivo di aver bisogno di questa scena di chiusura, con Mohammed che suona la fisarmonica. L’abbiamo girata a Sarajevo. Questa esposizione è stata un grande successo. Il museo si aspettava circa 25 000 visitatori per vederla e ne sono arrivati addirittura 40 000. Un enorme successo ad Amsterdam. Comunque ora sto lavorando per il Vienna Festival di giugno, sto realizzando un progetto ancora più grande che tocca anche la sfera politica ma non solo, riguarda in generale quella umanitaria, chi è senza una casa.

Come sei arrivato ad adattare Georges Simenon per L’uomo di Londra? Quale aspetto della poetica del grande scrittore francese si avvicinava alla tua sensibilità?

Béla Tarr: Non ho fatto un adattamento, ho semplicemente realizzato un film. Mi era venuto in mente quel romanzo che avevo letto anni prima. Mi sono ricordato dell’atmosfera, qualcuno seduto in una torre, in una gabbia, dove sei nel pieno della notte completamente solo, perso, da nessuna parte. Questo tipo di solitudine e questo uomo che ha più di cinquant’anni mi hanno fatto sorgere una domanda interessante per me: potrebbe essere in grado di cambiare la sua vita a questa età o no? L’ispirazione riguardava questa rivolta e ovviamente quest’uomo non ne era in grado.

Fino ad allora il tuo cinema palpitava nella pianura ungherese, fredda, desolata. Per L’uomo di Londra hai girato parte del film in un paesaggio completamente diverso, quello mediterraneo della Corsica, ma con una fotografia coerente con quella precedente del tuo cinema. Come mai?

Béla Tarr: Non abbiamo il mare in Ungheria e questo era il problema non tanto per il film quanto per la storia. Ma Bastia è stata soltanto un set.

Proprio con questo film hai cambiato il tuo direttore della fotografia di fiducia, passando da Gábor Medvigy al tedesco Fred Kelemen. Come mai?

Béla Tarr: Ho fatto L’uomo di Londra con Fred Kelemen. Lo conoscevo già dal 1990 quando era uno studente del primo anno all’accademia del cinema tedesca e io stavo tenendo una conferenza lì. È diventato mio studente e pian piano siamo diventati amici. Abbiamo lavorato insieme anche prima, in un cortometraggio nel 2002, Viaggio nella pianura ungherese. Lui era l’operatore, l’avevo invitato io, ed è stato un contributo interessante.

Nei tuoi film tornano sempre delle scene di danza. Ce ne sono parecchie in Le armonie di Werckmeister, la danza dell’eclissi, i bambini con La marcia di Radetzky, Hanna Schygulla con il generale, e poi Satantango già nel titolo e con la lunga scena degli ubriachi. Cosa rappresenta per te la danza?

Béla Tarr: È la vita, le persone non passano tutto il loro tempo a soffrire, c’è anche gioia. Ma la domanda è: come la mostrano? Devi anche vedere com’è la qualità di questa gioia, perché mostra anche la qualità della tua vita. È tutto così essenziale, come ti godi la vita.

In fondo i tuoi lunghi piani sequenza, complessi e concepiti con una coreografia mostrano il mondo come in una danza, non credi?

Béla Tarr: Sì, certo.

Quando Gus Van Sant realizzò Gerry, nel 2002, affermava di essersi ispirato al tuo stile. Ma è vero, come si sosteneva all’epoca, che tu sei stato proprio un suo consulente per quel film?

Béla Tarr: No. Lui stava semplicemente copiando qualcosa di base realizzato da me. Ero a New York e lui mi mostrò il rough cut per chiedermi la mia opinione. Ma non gli dissi molto. Non stavo quindi lavorando con lui. Siamo amici ma non c’è altro da dire a riguardo.

Tu hai sempre rifiutato la suddivisione che viene fatta in due parti della tua filmografia. Si fa partire la seconda, con lo stile che ti contraddistingue, con i lunghi piani sequenza, con Perdizione. Ma in realtà già il tuo precedente Macbeth televisivo, praticamente tutto in un piano sequenza, a parte la scena iniziale, conteneva i principi di questo stile.

Béla Tarr: In realtà già il mio primo film, Nido famigliare, conteneva dei primi piani molto lunghi, pure delle riprese parecchio lunghe. Erano già lunghi ma certamente sarebbero diventati sempre più lunghi di film in film. Ma proprio dall’inizio le due cose, lunghi monologhi e senza tagli, erano presenti nei miei film.

Si può dire comunque che il tuo Macbeth sia stata una sorta di sperimentazione o di esercizio di stile? Sei riuscito a prendere un classico teatrale stravolgendone la concezione scenica pur rispettandone sostanzialmente testo e narrazione.

Béla Tarr: No, è stata una situazione abbastanza strana perché ai tempi ero uno studente di cinema e mi era stato detto che avrei dovuto fare una sorta di esame. Mi avevano detto che doveva essere basato su del materiale letterario; proprio alcuni giorni prima stavo leggendo il Macbeth per cui ho chiesto alla scuola se potesse andare bene. Mi hanno detto di si. Poi la televisione ungherese è arrivata e mi ha offerto più soldi, dicendo che non era semplice esercizio ma che ne avrebbero fatta una loro produzione. Ho girato il tutto quando ero ancora uno studente ed è stata una bella esperienza per me, perché per la prima volta ho lavorato con il video e ho scoperto che non c’erano dei limiti di lunghezza come per la pellicola, con cui non potevi fare riprese di oltre una decina di minuti. Ma con il video puoi anche fare una ripresa anche di sessanta minuti e questo per me era molto interessante.

Info
La pagina dedicata a Béla Tarr sul sito de L’immagine e la parola del Locarno Festival.

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