Burying Old Alive

Burying Old Alive

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Presentato al Cinema Ritrovato 2019, nell’ambito della retrospettiva “Sotto i cieli di Seul: l’epoca d’oro del cinema sudcoreano”, Burying Old Alive rappresenta la terza misconosciuta versione della ballata di Narayama, dopo quella di Kinoshita e prima di quella di Imamura, due capisaldi del cinema nipponico. Ne è autore il grande regista classico sudcoreano Kim Ki-young che adatta la storia al proprio contesto storico e culturale, tra matriarcato, sciamanesimo e collettivismo.

Gu-ryeong e i suoi fratelli

In un villaggio di montagna, il piccolo Gu-ryeong si unisce a una nuova famiglia, con dieci fratelli, quando sua madre si risposa. La sciamana locale predice che da grande Gu-ryeong ucciderà i suoi fratelli e loro cercano invano di ucciderlo, rendendolo storpio. Dopo vent’anni Gu-ryeong sposa una donna muta, che viene stuprata da uno dei suoi fratelli. Lei per vendetta uccide il suo aggressore. Gu-ryeong è costretto a uccidere la moglie per punirla. Quindici anni dopo, nel pieno di una siccità, la madre di Gu-ryeong raggiunge i settant’anni e, come vuole la legge, viene portata dal figlio sulla cima della montagna sacra per immolarsi. [sinossi]

Il racconto Narayama bushikō (tradotto come Le canzoni di Narayama) dello scrittore giapponese Shichirō Fukazawa, ha generato due celebri adattamenti, tra loro antitetici, ma entrambi capolavori del cinema nipponico, quello di Keisuke Kinoshita del 1958 e quello di Shōhei Imamura del 1983 che vinse al Festival di Cannes. Esiste un terzo adattamento, per il cinema sudcoreano, a opera di uno dei suoi registi classici quale Kim Ki-young. Si tratta del film dal titolo originale Goryeojang, diffuso con il titolo internazionale Burying Old Alive, realizzato nel 1963, che è stato possibile vedere al Cinema Ritrovato 2019, per la retrospettiva “Sotto i cieli di Seul: l’epoca d’oro del cinema sudcoreano”. La versione presentata è il restauro in 4k, realizzato dal Korean Film Archive per celebrare il centenario della nascita del regista. Una versione di circa un’ora e mezza, mancante di due parti, corrispondenti a due rulli originali di cui è rimasto solo il sonoro, che vengono raccontate per mezzo di riassunti su cartelli, come già nella copia in 35mm che circolava in precedenza. Una scelta discutibile, e meno fruibile rispetto all’edizione uscita in dvd, dove si è scelto invece di lasciare il sonoro originale sullo schermo nero, in modo da poter comunque seguire i dialoghi e il procedere della narrazione.

Rispetto al soggetto originale, Kim Ki-young mantiene il contesto di fondo, la parte finale del trasporto dell’anziana donna sulla montagna, ma inventa nuove storie che avvengono nel povero villaggio. Non c’è dubbio comunque che il regista sudcoreano abbia visto la versione di Kinoshita, di cinque anni prima, di cui riprende a volte la dimensione teatrale, seppure non con livelli così stilizzati e dichiarati come nel film precedente. Quasi tutto Burying Old Alive è girato in studio e la parte finale, l’arrampicata sulla montagna, è girata in teatri di posa, com’è evidente dal cielo su fondale dipinto. Ai macabri corvi subentrano degli avvoltoi e il protagonista rischia di cadere in un burrone, come succede a un altro personaggio della prima versione cinematografica. La presa di distanza storica dal materiale trattato, che Kinoshita rendeva con la scena finale di un treno moderno che sfreccia in quei luoghi, equivale a un prologo, sempre di ambientazione contemporanea, inventato da Kim Ki-young, dove alcuni esperti dibattono sul tema del controllo della popolazione, e uno di questi cita proprio quell’antica leggenda. Per aumentare lo straniamento, questa scena è inquadrata spesso dalla cabina di registrazione. Dopo il prologo il film vede un momento di danza, ritmata da percussioni, nel villaggio, incentrata sulla figura della sciamana, non presente nell’originale letterario, come la reiba di Rashomon, altra opera classica nipponica cui Kim Ki-young evidentemente allude.

L’approccio di Kim Ki-young alla materia è quello di un entomologo freddo, che non sarebbe dispiaciuto all’altro grande regista, Shohei Imamura, che avrebbe fatto il film sullo stesso soggetto. Il regista sudcoreano crea un’epopea del villaggio, con lunghi salti temporali, seguendo la vita di Gu-ryeong, da quando, bambino, entra a far parte di una nuova famiglia, con dieci fratelli, dopo che la madre si risposa con un uomo che già ha avuto diverse mogli. Kim Ki-young segue dei cicli di vita, e nel villaggio, nella siccità e nella penuria alimentare estreme, mette in gioco conflitti tra patriarcato e matriarcato, tra collettivismo e capitalismo embrionale. Sembra che sia il patriarcato a combaciare con il capitalismo nella rappresentazione dei fratelli della famiglia ricca, che detengono i tuberi-seme di patata e possono propagarla. Le transazioni economiche e i baratti governano le dinamiche della gente del villaggio. La mamma di Gu-ryeong confessa al bambino di essersi risposata proprio per potergli permettere i pasti; le patate vengono usate come moneta di scambio con l’acqua, all’apice della siccità, e addirittura per comprare un bambino da sacrificare; ma non manca neanche la rappresentazione dei soldi, del denaro già in uso in quel villaggio primordiale. Il finale vede la sconfitta della sciamana e la distruzione dell’albero secco, simbolo del suo potere, come la recisione finale del ciliegio fiorito nel finale di Tabù – Gohatto. Sconfitto il capitalismo in nome di una società che diventa matriarcale, rappresentata dalle figlie della nuova famiglia di Gu-ryeong, fiducioso che d’ora in poi potranno vivere producendosi da soli il cibo, coltivandolo dai semi, in nome di un’autarchia famigliare, di un’autosufficienza che rifiuta gli scambi commerciali. Un passaggio in cui si può vedere, da un lato la rivoluzione d’aprile sudcoreana, avvenuta tre anni prima della realizzazione del film, quando moti studenteschi e di lavoratori rovesciarono la prima, autocratica, repubblica, proclamando la seconda repubblica, a sua volta finita un anno dopo con il colpo di stato di Park Chung-hee, sotto il cui regime peraltro vennero intraprese misure di controllo della popolazione. Dall’altro lato può rappresentare la caduta della dinastia Joseon, che ha dominato il paese per oltre cinque secoli, e del sistema feudale latifondista che nella Corea è durato fino al Novecento.

Come nel suo film più celebre, The Housemaid, Kim Ki-young costruisce un racconto antropologico incentrato sulle dinamiche coniugali, dal respiro classico: basta pensare al momento in cui la madre, in quella montagna-Ade, intima al figlio di andarsene senza voltarsi indietro, che ci riporta al mito di Orfeo ed Euridice.

Info
La scheda di Burying Old Alive sul sito del Cinema Ritrovato.

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