Within Our Gates

Within Our Gates

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Oscar Micheaux è un nome completamente dimenticato dagli storici del cinema e dagli appassionati cultori della Settima Arte. Eppure il suo Within Our Gates, secondo lungometraggio della quarantina (per la maggior parte andata perduta) che l’afrodiscendente Micheaux diresse in oltre venti anni di carriera, è la prima e più potente risposta al razzismo griffithiano. La ri-nascita di una nazione. A Locarno nella retrospettiva Black Light.

Rinascita di una nazione

Sylvia Landry, una giovane donna afroamericana, visita la cugina Alma nel nord del Paese. Sylvia sta aspettando il ritorno di Conrad con il quale ha progettato di sposarsi. Alma ama a sua volta Conrad. Larry, il fratellastro di Alma, tenta di corteggiare Sylvia ma viene respinto. Larry uccide un giocatore professionista durante una partita di poker. Alma fa in modo che Sylvia venga vista in una situazione compromettente da Conrad al suo ritorno. L’uomo sta per strangolare Sylvia ma viene fermato da Alma; decide dunque di partire per il Brasile, mentre Sylvia ritorna a sud… [sinossi]

Non può certo apparire casuale il fatto che in pochi, pochissimi, ricordino oggi il nome di Oscar Micheaux, e serbino memoria almeno di quello che è considerato universalmente il suo capolavoro, Within Our Gates. Non può allo stesso tempo essere letto come un caso il fatto che della quarantina di film diretti da Micheaux nel corso di oltre venti anni di carriera solo un numero ristretto sia stato conservato. Anche di Within Our Gates dopotutto si erano perse le tracce, e se non fosse spuntata fuori una copia dalla Spagna negli anni Settanta con ogni probabilità questa vibrante risposta all’intolleranza e al clima dell’epoca sarebbe rimasta una leggenda metropolitana. Potrà apparire capziosa come affermazione, ma se Micheaux non fosse stato un afrodiscendente le sue opere – sia letterarie che cinematografiche – avrebbero ricevuto ben altra considerazione e trattamento. Se si vuole davvero riflettere sul ruolo svolto nell’immaginario collettivo dalla cultura black – ed è questo il senso ultimo di una retrospettiva come quella allestita dal Festival di Locarno, e dove il film di Micheaux trova ospitalità – non si può in nessun modo prescindere da un’analisi delle difficoltà cui questa è andata incontro, osteggiata e schiacciata in un angolo da una cultura dominante bianca del tutto disinteressata a cedere anche il minimo livello di controllo della macchina produttiva. Riscoprire Within Our Gates non significa solo imbattersi in un’opera stratificata, intelligente e perfino teorica nel perpetuo rovesciamento dell’ideale griffithiano, ma sottolinea l’urgenza di una rivisitazione completa del cinema e delle arti del Novecento, che celano al proprio interno il puzzo nauseabondo di un apartheid velato ma sempre presente sottotraccia.

Sarebbe impensabile leggere Within Our Gates sradicandolo dal contesto politico, sociale e produttivo nel quale venne alla luce. È il 1920, gli Stati Uniti sono usciti vincitori da un conflitto mondiale che si è interamente svolto lontano dai loro confini territoriali: questo giovane Paese (la dichiarazione di indipendenza, quella che afferma che “tutti gli uomini sono stati creati uguali”, ha all’epoca dei fatti meno di centocinquanta anni, e solo 55 sono trascorsi dalla fine della Guerra di Secessione) irrompe sul proscenio internazionale come la realtà più moderna del Capitale, distante dalle obesità di un’Europa sempre più vecchia. Con la Grande Guerra ancora in corso di svolgimento David Wark Griffith aveva dato alla luce dapprima Nascita di una nazione e quindi Intolerance, mesto tentativo di riparazione ecumenico dopo il violento dibattito che seguì le proiezioni del film in cui, volenti o nolenti, a essere eletti come eroi del popolo erano i biechi incappucciati del Ku Klux Klan. Quando la NAACP, vale a dire la National Association for the Advancement of Colored People, picchettò le sale in cui Nascita di una nazione veniva proiettato, protestando contro il trattamento riservato agli ex-schiavi, Micheaux aveva da poco intrapreso la carriera artistica. Il suo primo romanzo, The Conquest: The Story of a Negro Homesteader, era stato stampato nel 1913 in un migliaio di copie. Un romanzo in gran parte autobiografico, e nel quale l’allora trentenne Micheaux (era infatti nato nel 1884) riversava le peripezie compiute per emanciparsi dalla sua condizione creando delle proprie attività lavorative. Un uomo indipendente, figlio di uno schiavo del Kentucky liberato solo dalla fine della Secessione col trionfo del Nord: il suo cognome, d’altro canto, fa riecheggiare un padronato d’origine francese, per quanto al Michaux originale il futuro regista aggiunga una e, chissà per quale ragione.
Quando Micheaux esordisce alla regia, nel 1919, traducendo in immagini proprio The Conquest – ma il film è andato perduto – è il primo afroamericano a farlo. Ma gli States non sono pronti a una rivoluzione di questo tipo. E Griffith, col suo KKK a suonare la carica dell’arrivano i nostri, è ancora il nume tutelare. Ha senso combatterlo? Forse no. Ma lo si può smontare dall’interno.

Il primo rilevante punto di caduta di Within Our Gates ruota tutto intorno a Nascita di una nazione, al punto che sarebbe lecito parlare di “rinascita di una nazione”, o meglio ancora di presa di coscienza della black community che sarà poi portata alla ribalta con ancora maggior fragore da Melvin Van Peebles in Sweet Sweetback’s Baadasssss Song. Ma sarà necessario attendere altri cinquant’anni! Micheaux, che pure dichiarò sempre di non aver avuto l’intenzione di “replicare” in alcun modo a Griffith, porta in scena un vero e proprio ribaltamento dei motivi dominanti del film del 1915. Il primo e più rilevante motivo è ovviamente quello della violenza: in Within Our Gates la protagonista, la mulatta Sylvia, si scopre essere stata violentata da un bianco, che è per di più il suo inconsapevole padre. Nell’utilizzare gli escamotage del montaggio in grado di alterare il Tempo di cui fu maestro proprio Griffith, Micheaux sputa in faccia agli spettatori la più truculenta delle immagini: uno stupratore bianco che, nel pieno di un linciaggio selvaggio e brutale, abusa sessualmente della sua stessa figlia, partorita da una donna nera a sua volta stuprata. Il mondo bianco abusa in ogni modo di quello nero, approfittando di lui in modo reiterato, ossessivo, meccanico. È il meccanismo del sistema, l’ingranaggio che fa muovere il tutto. La purezza bianca ha per di più un suo contraltare nella splendida Sylvia, interpretata dalla prima diva afrodiscendente Evelyn Preer – morirà nel 1932, appena trentaseienne, per le complicazioni del parto in cui venne alla luce la sua unica figlia –, mulatta che ha scelto la via dell’insegnamento e porta avanti tutte le sue battaglie sociali, sia per l’educazione dei giovani black sia per un’emancipazione femminile che punti sulla solidarietà di genere. È tutto un emanciparsi, questo piccolo caposaldo di un’America ancora inesistente, ma che anno dopo anno, pezzo dopo pezzo, rosicherà spicchi di potere al dominio dei discendenti dell’Europa. In qualche modo è già tutto qui, il rutilante incedere indignato di Spike Lee, la ratifica dell’eversione perpetua di Melvin Van Peebles, il poetare logorroico e incessante del rap. Negli States delle leggi Jim Crow, in quell’idea di Paese basata sul segregazionismo, sul concetto “separati ma uguali”, Oscar Micheaux pone la firma in calce a una contro-narrazione che si fa forte proprio delle innovazioni tecniche messe a punto dall’altra parte. La parte bianca.

Ma Within Our Gates è anche un grido lanciato contro il pensiero dominante della cultura afro. Quella cultura contro cui Micheaux aveva sbattuto durante gli anni dell’adolescenza, in cui la sua visione del mondo entrava in conflitto con quella paterna. I punti fermi della tradizione che fu schiava, e che nel 1920 era ancora vittima di dure vessazioni, vengono rigettati in toto da Micheaux. Là dove la cultura afrodiscendente ruotava ancora attorno alla figura del maschio alfa, retaggio ancestrale, Micheaux rivendica la centralità della figura femminile, non più solo fragile oppressa alla ricerca di un salvatore ma prima responsabile della propria soddisfazione personale, tanto nel campo lavorativo quanto in quello affettivo. Perché lo stupro del passato ordito ai suoi danni dal padre biologico Sylvia lo rivive nel tentativo di strangolamento messo in atto da Larry, ma anche nella totale mancanza di fiducia dell’amato Conrad. Allo stesso modo la religione, altro collante della comunità nera – si veda ad esempio The Blood of Jesus, diretto nel 1941 da Spencer Williams –, non è certo elemento di salvazione all’interno della narrazione di Micheaux. A testimoniarlo è in particolar modo il trattamento riservato in fase di sceneggiatura a Old Ned, il predicatore del film. Del tutto incapace di emanciparsi dalla sua condizione di negro agli occhi dei bianchi, Old Ned è un mero esercitatore del potere concessogli, che utilizza senza alcuna morale e senza alcun rispetto dell’altro. Squallido e intriso di una demagogia cristiana che vede nella sofferenza l’unico modo per accedere alle porte di un Paradiso tutto supposto (e che d’accordo con i suoi amici/padroni bianchi deve essere riservato agli ex-schiavi solo dopo la morte), Old Ned è il protagonista di uno degli scarti visivi più sconvolgenti e inquietanti di Within Our Gates – opera dalla tessitura cinematografica sublime, in grado di anticipare il concetto di suspense e di portare alle estreme conseguenze le sperimentazioni sulla dislocazione spazio-temporale attraverso il montaggio. A un certo punto, quasi in un rigurgito di orrore verso se stesso, si rivolge direttamente alla macchina da presa. “Again I’ve sold my birthright. All for a miserable ‘mess of pottage’. Negroes and whites – all are equal. As for me, miserable sinner, Hell is my destiny”.
In quella frase, in quell’inquadratura, in quello scarto che supera la parete fittizia dello schermo, c’è racchiuso il potere cinematografico e politico – perché il cinema è sempre politico, quando l’immagine non si accontenta di essere predigerita – di Within Our Gates, gioiello da scoprire per riscrivere quella Storia del Cinema che non fu e non è solo bianca.

Info
Within Our Gates è visibile su Youtube.

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