Strategia di una rapina

Strategia di una rapina

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Strategia di una rapina è un noir a suo modo quasi completamente dimenticato, un po’ come il suo regista, quel Robert Wise che un paio di anni più tardi travolse Hollywood – e l’immaginario wasp – con West Side Story. Anche Odds Against Tomorrow (questo il titolo originale) scardina le assi della prassi produttiva statunitense, ponendo al centro di un intreccio noir un discendente degli schiavi, il sublime Harry Belafonte. Dopotutto in questo disilluso apologo jazzato si avverte la presenza alla scrittura – seppur non ufficializzata – di Abraham Polonsky, inserito dal Maccartismo nella lista nera. Al Festival di Locarno nella retrospettiva Black Light.

Il piano inclinato

Dave Burke, un ex ufficiale di polizia, dopo essersi dimesso, decide di tentare un colpo ai danni della banca di un paesino a poche miglia da New York. Progettato il furto nei minimi dettagli, Dave inizia a cercare dei complici e ne trova due: Earle Slater, un ragazzo disoccupato che ha urgente bisogno di denaro per sposare Lorry, la ragazza che ama, e Johnny Ingram, un cantante di colore che ha perso tutto ciò che possedeva scommettendo alle corse. Anche se il piano è perfetto in ogni minimo dettaglio, l’ostacolo più grande è costituito proprio dai due soci, divisi da un incontenibile odio razziale. Il furto riesce, ma il divario tra i tre è così profondo da favorire la polizia. [sinossi]

Per approcciarsi a Strategia di una rapina, ventisettesima regia di Robert Wise in appena quindici anni di attività, si può anche prendere l’abbrivio da un’angolazione inattesa, e poco esplorata. Si tratta infatti del primo lavoro di rilievo affidato all’allora trentaseienne Dede Allen, tra le più straordinarie montatrici della storia di Hollywood: prima di allora Allen aveva infatti montato solo due lavori dimenticabili come Because of Eve di Howard Bretherton e Terror from the Year 5000 di Robert J. Gurney jr., mentre dopo l’incontro con Wise dimostrerà il proprio valore costruendo l’architettura visiva tra gli altri de Lo spaccone di Robert Rossen, e poi Gangster Story, Alice’s Restaurant, Il piccolo grande uomo, Bersaglio di notte, Missouri (tutti per la regia di Arthur Penn), Il ribelle dell’Anatolia di Elia Kazan, La prima volta di Jennifer di Paul Newman, Mattatoio 5 di George Roy Hill, Serpico e Quel pomeriggio di un giorno da cani di Sidney Lumet, Reds di Warren Beatty, e perfino Breakfast Club di John Hughes. Se ripercorrere la carriera di Dede Allen equivale a riscoprire un percorso parallelo nella storia di Hollywood e della messa in scena di se stessa, il discorso si stratifica ulteriormente tornando a posare gli occhi – o posandoli per la prima volta, come accadrà a molti critici “giovani” – su un film come Strategia di una rapina, inserito dal Festival di Locarno all’interno della retrospettiva monstre intitolata Black Light e dedicata al modo in cui la cultura afrodiscendente – e caraibica, come si vedrà tra poco – abbia dato vita a un proprio immaginario cinematografico nel corso del Ventesimo Secolo.

Odds Against Tomorrow, così recita il titolo originale volando lontano dalle trappole del genere e dall’apparentamento diretto con il noir per cercare altre traiettorie, tradendo in una certa misura la propria ambizione. Ci si può limitare alle strettoie della sinossi, così “simile” a tanti altri episodi di cinema “nero”: il piano talmente perfetto che non può che andare a finire male, la mente criminale che è un ex poliziotto, a sottolineare le convergenze tra chi dovrebbe difendere l’ordine e chi ne mina volutamente le certezze. Si potrebbe continuare a lungo. La sceneggiatura non sembra infatti distaccarsi da molti noir, la maggior parte dei quali a basso costo, patrimonio dell’universo dei b-movie, in cui la scelta alfabetica non deve essere letta in chiave di merito. Ma non è in quella direzione che si deve rivolgere lo sguardo. Strategia di una rapina si apre e si chiude su una pozzanghera. Una pozzanghera scura, che fatica anche solo a riflettere il cielo. Una pozzanghera sporca, con foglie e altri residui di vita che vi galleggiano dentro. Ne Il battello ebbro Arthur Rimbaud scriveva “Se desidero un’acqua d’Europa, è la pozzanghera nera e gelida in cui, nell’ora del crepuscolo, un bimbo malinconico abbandona, in ginocchio, un battello leggero come farfalla a maggio”. Ma non ci sono bimbi – anche se un gruppo di loro corre libero e felice, incrociando per un istante Robert Ryan – in Strategia di una rapina, e l’Europa è vecchia e lontana. Molto lontana. Nel Nuovo Mondo (già vecchio anche lui, e claudicante) la pozzanghera non ha alcun riflesso lirico. È nera e sporca, e basta. Non riflette, ingoia. Ingoia un mondo sfocato, come sottolineano con intelligenza i bei titoli di testa. L’accurata descrizione degli ambienti nella prima sequenza, quella in cui Ryan raggiunge al Juno Hotel il poliziotto in pensione Ed Beagley, marca da subito una netta distanza rispetto alla maggior parte dei film coevi e simili a quello di Wise. C’è la già citata pozza d’acqua, la strada desolatamente vuota, col vento che sposta in aria fogli di giornale; c’è Robert Ryan che cammina in piena luce, mentre in cielo uno stormo d’uccelli si muove compatto. L’uomo è solo, mentre la natura è unita. Solidale. In un minuto e pochi tagli di montaggio il senso politico del film viene svelato con una naturalezza estrema, quasi commovente nella sua semplicità.

È un film sull’odio e la diffidenza verso l’altro, quello che Wise compone avvalendosi della già citata Dede Allen al montaggio e Joseph C. Brun alla fotografia; e quest’odio e questa diffidenza, debolezze che minano il piano criminale ordito fino a un finale esplosivo, partono dalla pura epidermide. I personaggi in scena, compagni di ventura in quella che potrebbe/dovrebbe essere una rapina perfetta, combattono una guerra intestina solo ed esclusivamente a causa della diversa pigmentazione. Una riproduzione basica – ma forse proprio per questo assai efficace – del guano nel quale annaspa la società statunitense e in cui si ritrovano oggi tutte le società multietniche occidentali, e in cui il potere secolare “bianco” viene messo in discussione dai discendenti di coloro che dovevano essere schiavi e servitori, e che hanno scalato la società rivendicando il proprio diritto di essere trattati per ciò che sono. Donne e uomini. Questo schematismo, che di certo non stratifica il discorso, si lega perfettamente alla semplicità di un immaginario noir in cui il bianco è scontornato dal nero, e viceversa. Ne viene fuori un film di una purezza adamantina, cristallino sguardo tanto sul genere – e sul meccanismo dell’intrattenimento attraverso l’immagine – quanto sulla crisi dell’identità nella società del secondo dopoguerra, quando le lotte per i diritti civili iniziano a trovare i loro cantori.
Non è certo un caso che alla voce “sceneggiatura”, oltre al nome di Nelson Gidding sia da aggiungere l’allora proibito Abraham Polonsky, epurato da Hollywood perché sulla lista nera del Maccartismo. Marxista, Polonsky visse sulla propria pelle la stessa rimozione che gravava sulla popolazione afrodiscendente – ma il discorso varrebbe per tutte le minoranze, da quelle asiatiche a quelle latine – e, dopo essere stato ritenuto colpevole di attività anti-americana poté dirigere solo un film, il doloroso Ucciderò Willie Kid, incentrato sui nativi e sulla logo ghettizzazione. Autore che ha sempre preferito la chiarezza dell’esposizione alle fumosità della metafora, Polonsky scrive un noir tesissimo ma a suo modo prevedibile: non è dopotutto nella sorpresa dello spettatore che si deve rintracciare, come già scritto, il senso di un’operazione simile. Resta in ogni caso l’elegante regia di Wise, in grado di distanziarsi dal genere, e un cast di primissimo ordine capitanato da Ed Begley e fortificato dalle interpretazioni di Harry Belafonte (nessun discendente degli schiavi aveva ottenuto prima di lui un ruolo così centrale in un film di genere), Robert Ryan, Shelley Winters.

Info
Il trailer di Strategia di una rapina.

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