Gangster Story

Gangster Story

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Con Gangster Story Arthur Penn rivoluziona l’industria cinematografica hollywoodiana riscrivendo la Grande Depressione attraverso la lente della nouvelle vague. Un’opera fondamentale per lo sviluppo di quel movimento che prenderà il nome di New Hollywood e che segnerà l’immaginario di intere generazioni di cineasti, soprattutto per quel finale destabilizzante e in grado a cinquant’anni di distanza di lasciare ancora senza fiato.

Balletto di morte

Texas 1931. In una giornata come tante nella periferia di Dallas dove vive, Bonnie Parker conosce Clyde Barrow, un bel rapinatore da poco uscito di galera. I due si innamorano all’istante: in brevissimo tempo daranno vita a una delle bande criminali più celebri della Grande Depressione, svaligeranno negozi e banche, uccideranno parecchi poliziotti, diventeranno leggende dei media. Fino a essere trucidati in un’imboscata della polizia il 23 maggio del 1934. [sinossi]

Si può iniziare a parlare di un film partendo dal suo finale? Nel caso di Gangster Story è quasi d’obbligo. Nelle intenzioni del regista, il grande Arthur Penn, il finale del film doveva infatti essere qualcosa di indimenticabile, unico e mai visto prima: le intenzioni sono state perfettamente onorate al punto di dover iniziare proprio dalla fine, da quella mitragliata di oltre ottanta inquadrature in poco meno di tre minuti, girate da quattro cineprese e in due ciak, e poi montate da Jerry Greenberg (si tratta, incredibilmente, dell’unica scena del film lavorata dall’assistente della montatrice Dede Allen). Il regista realizza un balletto di morte, una danza macabra ai tempi paragonabile soltanto alla scena della doccia in Psycho di Hitchcock, suddividendo in quattro punti di vista fondamentali l’imboscata che la polizia mise in atto contro Bonnie Parker e Clyde Borrow (con la complicità del padre di uno dei membri della loro banda) e interrompendo continuamente l’azione attraverso un uso del montaggio rivoluzionario, folgorante e stordente. Alla fine di quei quasi tre minuti – in cui una raggelante violenza ci mostra il corpo di Bonnie (Faye Dunaway) accasciarsi progressivamente crivellato di colpi e il corpo di Clyde (Warren Beatty) rigirarsi agonizzante a terra sincopato da leggeri ralenti prima della stasi assoluta – Penn non fa poi quello che ci si aspetterebbe in una messa in scena classica, ovvero un totale che ricomponga la segmentazione percettiva, la pioggia di proiettili visivi che hanno colpito anche l’occhio dello spettatore. Nessun totale andrà a mostrarci Bonnie&Clyde assieme ai poliziotti fuoriusciti dai cespugli e nessuna musica si leverà con afflato epico o anche solo drammatico prima del fatidico THE END. Penn, prima di chiudere bruscamente il film, fa “solo” un movimento di macchina elegantissimo, contrappunto alla tempesta mortale che lo ha preceduto come un arpeggio quieto dopo un’indiavolata slavina di note: la macchina da presa è dietro lo sportello aperto dell’auto e, dallo spazio del finestrino abbassato, mostra due uomini di colore accorrere sulla scena del delitto e posizionarsi vicino alla “talpa” che ha di fatto consegnato Bonnie e Clyde alla morte; da qui la cinepresa fa un movimento rotatorio mostrando la fiancata della macchina, bucata dalle pallottole, per poi raggiungere il vetro posteriore in una posizione in cui il quadro è segmentato in tre parti (rispettivamente: il vetro anteriore e i due finestrini dell’auto). Qui la cinepresa si ferma: al centro dell’inquadratura c’è il foro di un proiettile nel vetro posteriore mentre fuori, a ridosso dell’auto, arrivano i poliziotti e lo sceriffo. Gli uomini accorsi e il vecchio contadino complice sono ormai mischiati al riflesso degli alberi che proviene dal vetro anteriore; al centro – quasi coincidente con un foro di proiettile – c’è lo sceriffo munito di mitra assieme al suo vice; sulla destra, all’altezza del finestrino del retro, un altro poliziotto che anziché guardare in basso – come fanno gli altri – i corpi dei morti (che noi non vediamo) guarda nella direzione della macchina da presa. Una ricomposizione del quadro pittorica che nega allo spettatore la scena del massacro per concentrarsi sulla legge che lo ha perpetuato e degradare subito a riflesso la società, la povera gente, posizionandosi all’altezza del foro di un proiettile che ha bucato il vetro dell’auto, il cavallo del XX secolo su cui si muovono i fuorilegge di un western infinito. Dopo una delle sequenze di montaggio più belle della storia del cinema, cui segue una stasi funebre sul mondo esterno dei vivi e non sui cadaveri dei caduti, finisce la storia di Bonnie e Clyde raccontata da Gangster Story e si apre un’era.

Americani che guardano europei che guardano altri americani.

È un film di regia e montaggio Gangster Story, capolavoro prodotto e interpretato da Warren Beatty e che lanciò la sua meravigliosa partner, Faye Dunaway. La regia di Penn – che si confrontò sempre per tutte le riprese del film con Beatty, la cui “responsabilità” circa l’intera operazione non è riducibile all’interpretazione di Clyde – è talmente vibrante e ricca da far quasi dimenticare tutto quello che era successo prima delle riprese. E che invece è molto. I futuri sceneggiatori del film, Robert Benton (che poi diventerà regista) e David Newman lavoravano per Esquire quando lessero il libro di John Toland su Dillinger che, raccontando l’epoca criminale degli anni Trenta, raccontava anche di Bonnie e Clyde dipingendoli non solo come due fuorilegge ma anche come due reietti sociali. A entrambi venne in mente di scrivere qualcosa sui due ribelli pensando certamente anche ai “ribelli” degli anni Sessanta. In quel periodo Benton era inoltre un grandissimo appassionato della Nouvelle Vague ed era rimasto particolarmente affascinato da Fino all’ultimo respiro e Jules e Jim che diventano per lui i modelli della sceneggiatura di Gangster Story. In parallelo è però interessante annotare che i due scrittori raccontarono di aver avuto in mente, ancor prima di cominciare a stendere la storia, la canzone Foggy Mountain Breakdown di Flatt&Scruggs, un brano country che è quanto di più americano possa esistere e che ritroviamo nella colonna sonora del film. Una volta terminata, la sceneggiatura viene proposta a Truffaut da Benton e Newman. Per vari motivi, tra cui l’impegno su Fahrenheit 451, il regista francese declina l’ipotesi di dirigere il film. Nel frattempo un famoso attore, Warren Beatty, ha però letto la storia e deciso di produrla consigliando agli sceneggiatori, in ogni caso, di cercare un regista americano per portare in immagini una “sceneggiatura così francese”. Saranno in tanti anche negli Stati Uniti a rifiutare: tra questi inizialmente c’è anche Arthur Penn, che poi invece si convince. Anche Penn, regista certo non alle prime armi, in quel periodo è interessato e influenzato dalla Nouvelle Vague, come ravvisabile anche in Mickey One del 1965 il cui protagonista è proprio Warren Beatty. “Eravamo americani che guardavano europei che guardavano altri americani” dichiarò Beatty: una sintesi calzante per l’incendio che stava per divampare. Penn modificò parecchie cose della sceneggiatura originaria (dove, per esempio, Clyde non era impotente ma bisessuale) e fin dall’inizio ebbe in mente di realizzare un film di grande impatto visivo, violento e libero, che unisse la commedia alla tragedia, che avesse un andamento rapsodico, poco lineare se non nelle sue coordinate fondamentali, in cui i personaggi fossero dotati di molte sfumature ma non fossero raccontati dal consueto psicologismo, in cui le automobili della Grande Depressione prendessero il posto dei cavalli del West. Un film che – anche secondo Beatty – avrebbe dovuto attrarre il pubblico giovane che vedeva i propri coetanei tornare avvolti in sacchi neri dalla guerra in Vietnam, e gli adulti che non avevano più voglia di vedere i film della settimana dei network televisivi. E che sentivano che negli anni Sessanta c’era anche qualcosa di tetro, qualcosa che poteva risuonare con i lontanissimi anni Trenta…

Riavvolgere il nastro

Nell’ora e cinquanta minuti precedente la morte di Bonnie e Clyde, la rapsodia cinematografica di Gangster Story avanza per sussulti sempre più mortuari e subisce accelerazioni ritmiche progressive. Ma esordisce con un tono straniante – dato che la fine dei personaggi è nota – smagliante e molto simile a quello di una commedia. Una commedia romantica, addirittura, nella prima magnifica sequenza che ci presenta Bonnie, che si dimena annoiata nel suo letto, e poi Clyde, che sta pensando probabilmente di rubare una macchina proprio sotto la finestra della ragazza. L’incontro tra i due è leggiadro e le carrellate che accompagnano la loro prima passeggiata ricordano davvero la svagatezza di Jean-Paul Belmondo e Jean Seberg lungo gli Champs-Élysées in Fino all’ultimo respiro. La prima sequenza è una danza di corteggiamento cui fa seguito un riconoscimento psicologico immediato tra i due e lo scorno erotico dell’impotenza di lui, perché i due sono belli e innamorati ma ovviamente non saranno mai una coppia felice. Questi ribelli senza causa sono incompiuti nel desiderio, incrinati nell’animo anche quando ridono e circondati da un mondo misero, impoverito e imbruttito dalla grande crisi che il film racconta per tutto il suo svolgersi ma su cui si sofferma particolarmente in alcuni quadri. Perché, appunto, si può tranquillamente affermare che Gangster Story sia diviso in “quadri” scenici, che non abbia uno sviluppo narrativo cogente, ma un dipanarsi fantasmagorico in cui vengono mostrati elementi e sentimenti che diventano conflitti e duelli mortali. E in cui, da un certo momento in poi, restano come elementi strutturanti soltanto da una parte la legge che vuole catturare Bonnie e Clyde e dall’altra i protagonisti con cui lo spettatore non può far altro che aderire perché Penn ha assunto il loro punto di vista fin dalla prima inquadratura. Fino al primo omicidio del film (che, va detto, non ricalca affatto fedelmente né la storia d’amore né le gesta dei veri Bonnie e Clyde), Gangster Story ha però un tono leggero e sbruffone, seduttivo e affascinante come i suoi due personaggi. La morte irrompe dopo una rapina in banca quando, già in fuga sopra una delle tante automobili rubate, Clyde fredda un cassiere, che è riuscito a raggiungerli, colpendolo in faccia: Penn non lesina nel primo piano dell’ammazzato, come a voler interrompere il limbo in cui lui stesso ha condotto lo spettatore. Un limbo che ha già portato all’identificazione nei due antieroi condannati al macello che, però, sono anche degli assassini. In seguito a questa prima uccisione, la morte accompagnerà sempre il racconto e, avanzando verso la fine, lo accompagnerà sempre più violentemente. Da riprese morbide contrassegnate da un montaggio più regolare e classico, il film si fa anche sempre più nervoso e il montaggio sempre più centrale. Quando il fratello di Clyde, Buck (Gene Hackman), entra nella banda criminale assieme alla moglie, le cose precipitano come se la gravità dell’essere in troppi avesse la meglio sulle illusioni. Nonostante questo, il film si prende ancora libertà narrative spiazzanti come la scena – del tutto ininfluente dal punto di vista dell’intreccio – in cui fa il suo esordio cinematografico Gene Wilder e che è un momento di isterico divertimento in una situazione già ampiamente senza via d’uscita. La scena spezza, ancora una volta, il tono emotivo precedente come se il regista volesse alienare lo spettatore dall’inevitabile linea narrativa o non fargli percepire fino in fondo il pesantissimo punto di caduta. Come se ci fosse sempre ancora tempo per morire. Ben prima del finale ci sono due sequenze di pura azione, in cui i nostri rischiano la vita, girate e montate in maniera sontuosa: sono quelle in cui la polizia fa irruzione nei luoghi in cui la banda ha trovato rifugio. La prima è però, ancora una volta, punteggiata da un tocco comico visto che la moglie di Buck (interpretata da Estelle Parsons, che per il film vinse l’Oscar come miglior attrice protagonista) fugge goffamente a piedi in preda a una crisi di nervi, sfidando le pallottole e venendo recuperata dall’auto di Clyde. La seconda sequenza è invece un’esplosione di violenza crudissima che prelude al finale. Prima di arrivarci Penn innesta un momento chiave di abbagliante lirismo nella visita della coppia alla famiglia di Bonnie: anziché la luce naturale, utilizzata prevalentemente per tutti gli esterni giorno, un semplice filtro conduce lo spettatore in una landa onirica sprofondata in un paesaggio sospeso, in un momento irreale che potrebbe essere anche solo sognato (ma non lo è), in cui la fine è già presente e il desiderio di una vita diversa dalla povertà dei genitori e del 25% degli americani disoccupati si infrange per sempre. Passato e futuro, realtà immaginata e vissuta, ricordo e premonizione rendono questa scena il momento più intimo, struggente e centrale del film. Che rivela qui, palesemente, la sua natura romantica. La successiva sequenza della morte di Buck (il secondo grandioso momento d’azione di cui si parlava) torna terrigna, con un montaggio mozzafiato per la sparatoria e l’inseguimento, e si conclude con l’agonia del fratello di Clyde, partendo da un bellissimo campo lungo per terminare su un dettaglio (la mano di Gene Hackman che smette di muoversi). Da questa violenza di vivida bellezza si approda a un’altra sparatoria cui Bonnie e Clyde riescono a fuggire per miracolo trovando veloce riparo tra un gruppo di accampati, di poveracci senza casa, di vittime della Depressione che li ammirano come divi del cinema. La verità è che Gangster Story si muove in maniera incessante tra tonalità narrative, depistando lo spettatore che non si trova di fronte esattamente a un film sui fuorilegge come dovrebbe essere né esattamente a un film d’amore o a un film sociale, e usa il fraseggio del cinema europeo degli anni Sessanta per raccontare una storia americana. Se il vissuto è un riflesso psichico dei personaggi (come nel cinema francese) e il gangsterismo è una scrittura implicita nell’inconscio americano stesso, Penn scardina comunque tutto in continuazione, mescolando le carte e ridandole come se avessero attraversato lo specchio di Alice. Niente è più dove si trovava prima, le cose non hanno più il significato che credevamo avessero, tutto è filtrato da altro ma è totalmente primigenio: lo specchio ha trasformato ogni cosa che è diventata diversamente lirica, diversamente tragica, diversamente romantica e politica. La modernità di questa opera d’arte sta certamente nella collisione tra immaginari a servizio della vicenda degli amanti-criminali più famosi d’America (forse del mondo), moderni Jesse James, giovani, belli e dannati. Ma il valore seminale del film di per sé non sarebbe sufficiente a renderlo quello che è, ossia un capolavoro di tragico lirismo: nella composizione peculiare di Penn/Beatty/Benton/Newman c’è qualcosa di più sublime e profondo. C’è il desiderio impossibile di dimenticare la morte, di farsene beffa raccontando un’ultima cosa senza valore, di poter deviare il tempo fino all’ultimo. E la volontà di vivere per poter anticipare in una poesia la propria fine.

I’ve got the blues so bad
I’ve got the blues so bad
Faye Dunaway/Bonnie in una scena del film

Servirebbe un libro per enumerare gli effetti di Gangster Story per la storia del cinema americano. Senza neanche scomodare l’espressione “New Hollywood” (che per molti critici e studiosi parte anche o proprio da qui), palesi influenze del film vanno da autori come il Malick de La rabbia giovane e I giorni del cielo fino al Lynch di Cuore selvaggio e alcuni dettagli rimandano persino a Stanley Kubrick che, nelle inquadrature frontali di Alex in macchina in Arancia meccanica getta più che uno sguardo al Clyde di Warren Beatty al volante delle sue auto (composizioni del quadro che, in Gangster Story, sono una meraviglia “rembrandtiana” a sé). Il film è un cortocircuito, più che un incontro, tra amanti americani della Nouvelle Vague e il cinema Usa orfano dei grandi Studios, e la sua influenza è talmente vasta, imponente ed epocale da far sì che si possa considerare uno dei titoli più rilevanti del cinema Occidentale. Ma al di là di tutto questo, che è un’enormità, quel che si può dire storiograficamente resta comunque meno impattante in confronto al magma emotivo che Gangster Story riesce a produrre. Disperati in un mondo in rovina, relitti e reietti, Bonnie e Clyde sognano cose impossibili come l’emancipazione dallo stato di indigenza e di necessità, e si ribellano con efferata violenza a una società che del resto non ha alcuna cura degli esseri umani. Diventando miti per una classe di diseredati. Criminali di fronte a istituzioni e leggi senza pietà, i due disseminano terrore in un paesaggio di cittadine tutte uguali, di case abbandonate da cui sono stati cacciati dei poveracci, di spettri esistiti solo per essere seppelliti il prima possibile e rimossi subito da un Paese che non vorrebbe mai più ricordarli. Ma il cui cinema, a metà degli anni Sessanta e dopo la fine degli happy days, è pronto ad accoglierli e raccontarli (nuovamente). Gangster Story è un film di morti, una fotografia di defunti convinti di vivere ancora come nelle novelle gotiche, in fin dei conti un film sulla transitorietà della Storia. Gangster Story è un foto d’epoca replicabile in ogni momento, l’eco del passato un istante dopo che è fluito: “I’ve got the blues so bad” dice Faye Dunaway dopo aver visto sua madre. Se il film parla agli Usa e degli Usa, la sua ossessione è la transitorietà del vivere, l’inconsistenza del presente: solo la morte non si può mostrare e, infatti, non verrà mostrata come dato finito al di là della sua scomposizione percettiva. Questo sentimento radicale ed esistenziale, che fa rientrare il film tra i titoli altamente perturbanti del cinema americano, si sposa inoltre con una rinnovata spinta politica, altrettanto radicale. È probabilmente da questo milieu che nasce qualcosa di unico. Nelle intenzioni di Penn Gangster Story era stretto parente di Furore di John Ford, come chiaramente mostrano i titoli di testa (di Wayne Fitzgerald) in cui il “clic” di un’ipotetica macchina fotografica intervalla scatti della povertà della Grande Depressione con i credits del film. I fantasmi di Walker Evans, di Steinbeck, di Ford aleggiano fin da principio e le mitragliate finali, tanto brutali ed esplicite, sono anche il correlativo di quegli scatti fotografici iniziali perché sono il loro unico compimento sociale. “I’ve got the blues so bad”. Sono così triste. Sto per morire. Stiamo morendo. Nel Texas del 1930, nel Vietnam del 1967, negli Stati Uniti e per gli Stati Uniti. Il film vinse due premi Oscar, uno alla già citata Estelle Parsons e il secondo per la fotografia a Burnett Guffey. Penn non si sentì dell’umore per andare alla cerimonia. Pochi giorni prima avevano sparato a Martin Luther King.

Info
Il trailer di Gangster Story.
Gangster Story, la sequenza finale fotogramma per fotogramma.
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