The Bra – Il reggipetto

The Bra – Il reggipetto

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Nato in un contesto di comunità creativa internazionale, The Bra – Il reggipetto di Veit Helmer è un racconto piccolo (e spesso anche esile), che sceglie coraggiosamente la rinuncia al dialogo ma che non si libera mai da un’incerta e balbettata identità autoriale. In sala.

Il treno dei desideri (infranti)

Baku, Azerbaigian. Ogni giorno un attempato ferroviere, alla guida di un treno merci, attraversa un quartiere della città dove le case e gli edifici sono estremamente vicini alla ferrovia. Lo spazio è talmente ristretto che gli abitanti locali lo utilizzano tranquillamente, bivaccando in mezzo al binario, mangiando, bevendo, sedendo a un bar, stendendo i panni ad asciugare. Un bambino è preposto ad avvertire il quartiere quando il treno sta per arrivare, e ogni volta gli abitanti si affrettano a liberare lo spazio per il passaggio del convoglio. Puntualmente il treno raccoglie qualche oggetto al suo passaggio; tra questi, finisce impigliato al treno un reggiseno, lasciato ad asciugare in mezzo alla ferrovia. Il guidatore del treno si mette così alla ricerca della proprietaria del reggiseno. Probabilmente esso appartiene a una donna fascinosa che il ferroviere ha intravisto denudarsi ma della quale ignora il volto… [sinossi]

The Bra – Il reggipetto nasce da una koinè internazionale. Il regista Veit Helmer è tedesco, l’attore protagonista (il glorioso Miki Manojlovič) è serbo, i tre coprotagonisti più noti, Paz Vega, Maia Morgenstern e Denis Lavant, sono rispettivamente spagnola, romena e francese. L’insieme è convocato per un racconto azero, girato a Baku in un quartiere prossimo alla demolizione (sarà in effetti demolito poco dopo la fine delle riprese) e in maestosi paesaggi naturali lontani dalla città, con l’ampia partecipazione in ruoli secondari di attori locali. La contaminazione è bizzarra e curiosa, e giustificata da Helmer tramite l’adesione a un racconto totalmente privo di dialoghi. Ideato infatti come opera esclusivamente affidata all’immagine, ai rumori e alla musica, The Bra si presta facilmente a un esperanto sovranazionale grazie all’assenza della parola, scelta espressiva che si apre all’agevole partecipazione di attori di varia origine. In qualche modo appartiene a un esperanto trasversale pure lo spirito dell’operazione, spesso piegato a un umorismo grottesco e dolciastro che da un lato guarda ad ascendenze balcanico-caucasiche e dall’altro ricorda certe opere di Jean-Pierre Jeunet. Veit Helmer prende spunto infatti da un dato reale per astrarlo in un lieve racconto surreale, a tratti malinconico e spesso a un passo dalle dinamiche visive di un cartoon.

La realtà è quella di un quartiere di Baku (chiamato Shangai) dove la ferrovia passa letteralmente in mezzo a case ed edifici, e dove tale spazio interstiziale è quotidianamente utilizzato dagli abitanti per bivaccare, sedere al tavolo di un bar, stendere i panni, e chi più ne ha più ne metta. Un bambino provvidenziale si occupa di avvertire l’intero quartiere quando il treno merci sta per arrivare, inducendo la popolazione locale a liberare il passaggio per fare spazio al convoglio. A detta di Helmer, “Shangai” era letteralmente organizzato in questo modo fino all’epoca delle riprese del film (avvenute nel 2017), e poco dopo è stato deciso di fare piazza pulita di tutto il quartiere. Da questo curioso spunto di realtà Helmer sceglie poi la via della favola surreale, raccontando di Nurlan, un ferroviere che ogni giorno, attraversando “Shangai”, riporta a casa qualche oggetto abbandonato dagli abitanti e schiantato contro il treno al suo passaggio. Tra questi oggetti si trasforma in McGuffin un fascinoso reggiseno, rimasto impigliato in una fiancata del treno e subito ricondotto da Nurlan a una misteriosa figura femminile che ha visto denudarsi in una delle case limitrofe. Da lì il racconto prende la strada dell’indagine surreale, dove una dopo l’altra vengono a scontrarsi la solitudine di Nurlan e quella di molte donne abbandonate alla loro misera esistenza. Il reggiseno si trasforma in una moderna scarpetta di Cenerentola, e Nurlan si dedica a prove e misurazioni, sfuggendo anche alle voglie nascoste di donne solitarie. Sposando gli ingigantimenti del cartoon in carne e ossa senza parole, dove i cattivi hanno la fisicità di mariti corpulenti e gelosi che si esprimono a grugniti, The Bra prende le mosse da una trovata narrativa piuttosto originale e divertente.

Purtroppo lo è molto meno (sia originale, sia divertente) l’insieme dell’opera, che confonde spesso i confini tra piccolo ed esile. L’orizzonte prescelto è infatti quello del racconto minuto, al centro del quale si colloca una coerente figura protagonista tenera e appartata, un uomo senza qualità che si muove in un universo privo di senso e segnato dalla meccanica iteratività. In questo orizzonte surreale e privo di identità, dove anche il tempo sembra perdere suoi precisi connotati (i costumi e i personaggi appartengono a una sorta di “eterni anni Cinquanta”), Nurlan cerca di gettare un ponte verso la realtà e la sua lettura tramite la ricerca della proprietaria del reggiseno. Per far questo, Helmer finisce per trasformare il rifiuto della parola in scelta manieristica, un po’ come tutta la confezione e la messa in scena che cadono dalle parti di un risaputo barocco visivo. Il film è privo di dialoghi ma non è certo privo di musica, che alla resa dei conti si delinea come uno dei maggiori limiti. Almeno per quanto riguarda la musica extradiegetica si tratta di un commento ridondante, di gusto neutro e internazionale, che tradisce la tendenza a un’anonima confezione ben lontana dalla più che evidente ambizione autoriale dell’intero film. D’altra parte, il ricorso a qualche motivo locale va a inserirsi in un più generale approccio facilmente folcloristico intorno a usi e costumi azeri, mentre anche sul piano visivo Helmer ricorre spesso a brutti ralenti di grana grossa. In fin dei conti è anche l’utilizzo degli attori a spingere verso conclusioni di questo tipo, convocati sì da varie parti d’Europa grazie all’assenza di parola, ma che più volte lasciano la sensazione della zeppa pleonastica in ottica di coproduzione – ricaviamo questa impressione soprattutto dal personaggio di Denis Lavant.

È infine anche lo sguardo cinematografico riservato alle bellezze naturali dell’Azerbaigian a sfiorare spesso la cartolina acritica, sull’ambiguo crinale del trasalimento esotico-calligrafico. Il breve orizzonte narrativo, voluto e ricercato, non apre insomma all’efficace universalità della comicità pura e assoluta, ma rimane all’interno di esili confini espressivi, mai convincenti e piuttosto balbettati. In questo senso The Bra può trovare anche un buon pubblico internazionale, ma resta un prodotto midcult, che al massimo può strappare un sorriso di simpatia. Prima di essere dimenticato in fretta.

Info Il trailer di The Bra – Il reggipetto

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