Ho camminato con uno zombi

Ho camminato con uno zombi

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Venticinque anni prima della rivoluzione romeriana, Jacques Tourneur si confronta con il mito haitiano delle persone ridotte in uno stato di non-vita: ne viene fuori Ho camminato con uno zombi, uno dei suoi più lucenti capolavori, che il pubblico di Locarno un paio di anni fa ha potuto apprezzare anche sull’immenso schermo della Piazza Grande, in una proiezione destinata alla memoria cinefila.

Il rito

Betsy, un’infermiera canadese, accetta un incarico che la porta nei Caraibi. Deve prendersi cura di Jessica, moglie di un ricco proprietario terriero, affetta da una misteriosa malattia che la rende muta e catatonica. Ma secondo le dicerie del luogo la donna è uno zombie, vittima di un maleficio voodoo. [sinossi]

Ho camminato con uno zombi è stato presentato nell’agosto del 2017 al pubblico del Festival di Locarno nella Piazza Grande, su uno schermo di dimensioni non comuni e in pellicola. L’ipnosi collettiva che accoglie la giovane infermiera Betsy nelle Indie Occidentali si è dunque propagata tra gli spettatori, immobili su quelle migliaia di sedie leopardate. Di fronte a degli zombi a loro modo inoffensivi, e forse ancor più per questo in grado di creare angoscia, il controcampo avrà ben altri morti viventi, quelli famelici rinchiusi nel centro commerciale che è luogo cardine di Dawn of the Dead, ribattezzato solo per il pubblico italiano Zombi, con un’evidente mancanza di filologia: i riti voodoo e la mitologia importata nel Caribe dagli schiavi africani assai poco ha a che spartire con il concetto di ritornanti portato con fierezza e caparbietà avanti da George Romero. Le sue creature, difatti, si chiamano dead, e si sono chiamate così fin dai tempi de La notte dei morti viventi, che diede il via alla saga nel 1968, venticinque anni dopo l’avvento del film di Jacques Tourneur…
Se Jacques Tourneur nel corso della sua carriera ha attraversato i generi senza mai cedere realmente alla loro struttura, ma percependone il fascino misterico e lavorando in profondità su quell’aspetto, il titolo che forse più di tutti sublima questa peculiarità espressiva è proprio Ho camminato con uno zombie, il secondo dei tre gioielli che il regista di origine francese diresse per la RKO sotto l’egida attenta di Val Lewton. Questo bizzarro mélange di esotismo e gotico raggiunge le sale nell’aprile del 1943, seguendo di quattro mesi Il bacio della pantera e anticipando di altri due L’uomo leopardo: un ritmo di produzione folle, fuori da qualsiasi logica industriale, grazie al quale però questi tre film diventano quasi un tutt’uno, un lungo corpo respirante superstizione, mistero, soprannaturale. Per quanto siano diventati – soprattutto Cat People, in realtà – dei veri e propri punti fermi del cinema dell’orrore, non è la paura a determinare le scelte dello sguardo di Tourneur. Per meglio dire, non è la paura nella sua scaturigine prettamente epidermica. In qualche modo lo anticipa anche lo stesso regista, con quel “I walked with” nel titolo che sta a suggerire due elementi entrambi in grado di scardinare le aspettative di chi in sala vorrebbe spaventarsi, tappandosi magari gli occhi con le mani. Il primo elemento è racchiuso nel verbo “camminare”, non certo appropriato a un genere che di solito si occupa di fughe, di corse, di inseguimenti mostruosi. Il secondo elemento sta invece tutto nel tempo verbale, volto al passato: se ciò di cui si parla è già avvenuto allora è presumibile pensare che la protagonista ne sia uscita indenne, o almeno in ogni caso viva.

In effetti Ho camminato con uno zombie potrebbe facilmente deludere lo spettatore alla ricerca del terrore, anche perché se c’è un riferimento culturale a cui viene naturale accostare il film non è certo da ricercare a Hollywood, magari tornando con la mente allo splendido White Zombie di Victor Halperin (in Italia noto con il titolo L’isola degli zombies), né nella storia del cinema tout court. Lewton e Tourneur affrontano la tematica degli uomini ridotti in schiavitù attraverso l’utilizzo dei riti voodoo volgendo lo sguardo in direzione del Vecchio Continente, una volta di più per smarcarsi da qualsiasi stretta connessione con l’orrore. Il racconto della giovane infermiera Betsy, interpretata da Frances Dee – che un decennio prima era stata Meg March nell’adattamento di Piccole donne firmato da George Cukor –, che raggiunge il Caribe per accudire la moglie di un ricco proprietario terriero si rivolge infatti direttamente al romanzo gotico, sia per quel che concerne il riferimento di classe (la proletaria che entra a far parte del mondo aristocratico), sia sotto il profilo strettamente sentimentale. Tra nebbie e ali della magione più oscure di altre è come se l’ispirazione di Tourneur non avesse attinto dall’horror ma dalla penna fertile di Charlotte Brontë o di sua sorella Emily, o ancora dalla Jane Austen de L’abbazia di Northanger. Il tratto estremamente femminile del film funge in qualche modo da contraltare con la scrittura in immagini del personaggio di Irena Dubrovna nell’immediatamente precedente Il bacio della pantera. In quel caso, muovendosi una volta di più in direzione dell’Europa – quella balcanica, dove la magia nera era per accezione comune all’ordine del giorno, tra maledizioni, vampiri, ritornanti e chi più ne ha più ne metta – si rimarcava la pericolosità felina, ancestrale, del muliebre, in grado di tormentare le notti della buona borghesia statunitense. Ora invece è la donna occidentale a doversi recare in un posto straniero – al sole di San Sebastián, nelle Indie Occidentali – per scoprirne il fascino nascosto, forse pericoloso, indubbiamente misterico.

Il Caribe da sempre affascina il pensiero e l’immaginario bianco anglosassone, sia per una questione di dominazione – le cosiddette Indie Occidentali sono parte del Commonwealth, anche se il sogno di vederle uscire dal cono d’ombra britannico sotto forma di un’unica grande nazione si è frantumato quasi subito, tra il finire degli anni Cinquanta e l’inizio del decennio successivo – sia per quella mescolanza di culture “schiave” che hanno prodotto, tra le altre cose, anche quel complesso di riti oramai noti come voodoo. Eppure si pensi al coraggio di Tourneur nel prendere un’opera gotica e trascinarla fino al centro delle Americhe, al sole e al caldo imperante dei tropici, senza per questo smarrire un’oncia del proprio senso primigenio. Ho camminato con uno zombie è un’opera a suo modo miracolosa, unica, impossibile da replicare: si muove in direzione di un sentimento melodrammatico per poi scartare, quando sembra doversi approssimare l’orrore, verso una dimensione antropologica, perfino documentaria. Allusiva, come sempre per il regista francese, e così arcano e oscuro da vagheggiare il soprannaturale. Un soprannaturale che non combatte con la scienza, ma vi si adagia a fianco, esattamente come il male che ha colpito la sfortunata Jessica è scientifico eppur figlio di una maledizione: non c’è opposizione, tra le due parti in gioco, non c’è la necessità che una delle due sovrasti l’altra. Non è un caso che il film a cui più di tutto assomiglia Ho camminato con uno zombie sia Rebecca, la prima moglie di Alfred Hitchcock: anche lì, nel muoversi invisibile della signorina Danvers per le ampie ali di Manderlay, si percepiva il desiderio di indagare l’abisso del super-naturale.
Tourneur mette in scena un evento – già sviluppato al passato attraverso il titolo, come già scritto dianzi – in cui tutti i personaggi non fanno altro che sovrapporre memorie a memorie, sempre modificandole, sempre aggiungendo particolari ma allo stesso tempo perdendo la cognizione del tempo presente, che si fa così sfumato da risultare quasi impalpabile. Inutile. Il presente è inutile, se vissuto in una componente reale che non ha alcuna attinenza con un mondo altro, agitato da notti d’incubo senza mostri ma dominati da ombre, da riflessi della luna. Un lungo interminabile deliquio notturno, quello che firma Tourneur, un viaggio d’ombra, cuore di tenebra perso nei luoghi aviti di una cultura con la quale non si può dialogare ricorrendo alla mera semplicità dell’ovvio scientifico. Non ha timore di mettere in scena il fantasma, il regista francese, e lo fa ricorrendo alla documentazione, lavorando sul vero per potersi permettere un’evasione onirica che non sia avvertita come estranea, ma permei una materia già esistente, come il voodoo. Straordinario cesellatore di spazi e di forme, Tourneur filma gli zombie non come mostri, ma come schiavi, vittime loro prima ancora di chiunque altro di un dominio che è sia materiale – la lottizzazione dei terreni è tutta nelle mani dei bianchi – sia spirituale. Betsy imparerà non ad aver paura degli zombie, poveri esseri umani senza più volontà, ma a temere di poterlo diventare a sua volta, lei è che giunta nell’isola a servizio di altri. Lei che non è schiava, ma è sotto padrone. Negli occhi spenti di Carrefour, il gigantesco zombie che la ragazza incontra nel cuore della notte, non c’è rabbia né violenza, ma il dolore eterno di una vita vissuta da schiavo, figlio di un’Africa lontanissima ma che ha portato con sé, almeno, la sua magia.

Info
Il trailer di Ho camminato con uno zombie.

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