Rebecca, la prima moglie

Rebecca, la prima moglie

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Il primo film statunitense di Alfred Hitchcock, Rebecca, per quanto a uno sguardo disattento possa apparire a se stante all’interno della filmografia del maestro del thriller contiene al proprio interno tutti i punti fermi della sua poetica, trasposti in un melò malsano, romantico e crudele. Un capolavoro da riscoprire.

Manderley State of Mind

A Monte Carlo una giovane dama di compagnia conosce e sposa il ricco e aristocratico Massimo de Winter. Massimo è vedovo della prima moglie, Rebecca, con cui ha vissuto nel castello di Manderley, in Inghilterra. Nel castello però, la signora Danvers, la governante, nutre ancora un’ammirazione incondizionata nei confronti della precedente padrona e il ricordo ossessionante di lei conduce la nuova moglie alla gelosia e all’esasperazione. Rebecca era morta per un naufragio del suo yacht; il marito aveva riconosciuto il cadavere ed era stata seppellita nella cappella di famiglia. Ma… [sinossi]

“La scorsa notte ho sognato di essere tornata a Manderley. Mi sembrava di essere ferma davanti al cancello che chiude il viale, e di non poter entrare da chissà quanto tempo, perché il passaggio mi era stato sbarrato. Poi, come accade nei sogni, a un tratto mi sentii in possesso di poteri sovrannaturali e attraversai come un fantasma le sbarre che mi erano davanti. Il viale si snodava di fronte a me, con le sue curve tortuose, come una volta. Ma mano a mano che avanzavo mi accorsi che vi era qualcosa di mutato; la natura aveva ripreso quello che le apparteneva, e poco a poco aveva invaso il viale con lunghe dita tenaci. Sempre più addentro si insinuava il misero sentiero che una volta era stato il nostro viale. Finalmente arrivai a Manderley… a Manderley, segreta e silenziosa. Il tempo non era riuscito a sfigurare la perfetta simmetria delle sue mura. Il chiaro di luna può giocare strani scherzi alla fantasia: mi sembrò improvvisamente che giungesse luce dalle finestre, poi portata dal vento una nuvola coprì la luna, e sembrò una mano scura davanti a un volto. L’illusione svanì, quelle mura mi parvero simili a una conchiglia vuota in cui non risuonassero più echi di vita passata. Noi non possiamo tornare a Manderley, ormai è più che certo, ma talvolta nei sogni io rivivo quegli strani giorni della mia vita, che per me cominciarono sulle rive del Mediterraneo…”
Una soggettiva nel mezzo della natura incolta, fino al modellino di una tenuta di campagna, dominata dalla voce narrante di una donna senza nome. Inizia così l’avventura statunitense di sir Alfred Hitchcock, che a ridosso della Seconda Guerra Mondiale abbandona la natia Inghilterra per attraversare l’oceano e confrontarsi, finalmente, con Hollywood. Eppure non c’è film più anglosassone di Rebecca, la prima moglie all’interno dell’intera carriera di Hitchcock: neanche The Lodger, né tantomeno Easy Virtue, Il club dei trentanove o La signora scompare, possono competere con l’incedere tra il gotico e il melò che segna in maniera indelebile la storia della seconda signora de Winter, costretta a dimostrarsi adeguata come moglie di un nobile a cospetto della società e, ancor più, agli occhi invisibili di Rebecca, la prima consorte scomparsa in mare con il suo panfilo alcuni anni prima. Potrebbe anche non apparire “hitchcockiano” Rebecca, per lo meno a uno sguardo disattento o poco a suo agio con l’idea di cinema del regista anglosassone. Ma si tratterebbe di un errore di giudizio di rara portata. Non è d’altro canto insolito, anche tra i cultori dell’arte di Hitchcock, vedere Rebecca abbandonato in un angolo, dimenticato, poco citato, disperso nel mare sterminato della sua filmografia a vantaggio dei vari La finestra sul cortile, Intrigo internazionale, La donna che visse due volte, Psycho, L’uomo che sapeva troppo, Gli uccelli e via discorrendo. Rebecca rimane un titolo storicamente rilevante, ma più che altro perché sintetizza con la sua sola esistenza un evento cronologicamente fondamentale nella carriera di Hitchcock. L’abbandono del Vecchio Continente a favore degli Stati Uniti non è solo un mero passaggio dall’Europa al Nuovo Mondo.

Fin dai suoi esordi, all’inizio degli anni Venti, Hitchcock dimostra uno sguardo ben più hollywoodiano che europeo: il gusto per la narrazione, l’amore per l’intrigo (sia esso amoroso o spionistico), l’utilizzo delle tecniche dell’avanguardia per accentuare i dettagli all’interno di una sequenza, sono elementi del tutto estranei a buona parte dei suoi colleghi cineasti, anche e soprattutto nella sonnacchiosa produzione inglese. Se proprio si deve trovare un suo simile, nel panorama europeo dell’epoca, è necessario attraversare la manica, prendere un treno e recarsi in Germania, dove Fritz Lang lascia che le sue narrazioni si adagino nella vorticosa sarabanda di noir, polizieschi e ambientazioni esotiche. Lang, non appena Adolf Hitler salirà al potere, riparerà prima nella confinante Francia (giusto il tempo per dirigere un film, Liliom) e quindi attraverserà l’oceano, per raggiungere la Mecca del cinema. Quando Hitchcock compie il medesimo tragitto – ma da porti differenti – sull’Europa soffiano impetuosi venti di guerra, che lui stesso ha respirato in Lady Vanishes. Quello di Hollywood appare, a Hitchcock come alla stragrande maggioranza degli artisti europei (cinematografari, teatranti e musicisti), l’unico possibile “buen retiro”, un’oasi distante da qualsivoglia barbarie, eccezion fatta per le bizze delle star.
E tutte le star vorrebbero essere scelte da Hitchcock per intepretare la protagonista di Rebecca; non tanto per il nome del regista – che a Hollywood non dice ancora granché –, e forse neanche per la fama del libro da cui il film è tratto, pubblicato da Daphne Du Maurier nel 1938 e destinato a un successo di pubblico immediato, al punto che sempre nell’anno di edizione Orson Welles cura un adattamento radiofonico del romanzo. Il clamore che circonda la lavorazione di Rebecca è dovuto in gran parte al fatto che si tratta della prima produzione di David O. Selznick dopo i fasti vissuti con Via col vento, destinato a diventare nel giro di pochi mesi il maggiore incasso dell’allora decennale storia del cinema. La stessa Vivien Leigh, sulla spinta dell’interpretazione sublime nel ruolo di Scarlett O’Hara, svolge un provino per Hitchcock mentre è ancora sul set di Victor Fleming, sperando di poter contare anche sulla presenza nel cast di Laurence Olivier, suo marito. Cercano di ottenere senza successo il ruolo, tra le altre, anche Loretta Young, Margaret Sullivan, e l’allora sedicenne Anne Baxter (che esordirà nel 1940 in Giuramento di sangue di Richard Thorpe), ma la scelta di Hitchcock, contro il parere di buona parte dei suoi collaboratori, cade su Joan Fontaine, poco più che ventenne e ben poco conosciuta. Un ruolo così dimesso, agli occhi di Hitchcock, non può essere affidato a un’attrice troppo nota, perché il pubblico perderebbe subito contatto con il personaggio.

E pensare che Hitchcock aveva raggiunto Hollywood pensando di dover portare in scena un adattamento della tragedia del Titanic… Una storia che stava molto a cuore a Selznick, che aveva intenzione di allestire un set monumentale, per un progetto a dir poco epico. Fu lo stesso Selznick, a sentire le parole di Hitchcock, a cambiare idea in modo repentino, preferendo rifugiarsi nel comodo tepore del melodramma amoroso d’ispirazione letteraria. Il progetto del Titanic andò così a fondo, seguendo il destino del transatlantico, e divenne materia per i nemici teutonici: nel 1943 uscirà nella Germania nazista, infatti, il costoso Titanic prodotto da Joseph Goebbels e diretto da Herbert Selpin. Al momento della distribuzione nelle sale la macchina da guerra tedesca si starà inceppando, e Selpin sarà già sotto terra, ucciso dalla Gestapo nella cella in cui era stato rinchiuso per volere di Goebbels dopo aver parlato apertamente male della Wehrmacht sul set. Titanic, girato sul piroscafo di lusso Cap Arcona (che colerà a picco dopo un attacco aereo alleato nel maggio del 1945 nella baia di Lubecca, con la nave diventata una bara galleggiante per migliaia di prigionieri dei campi di sterminio sgomberati con l’avanzata statunitense e sovietica) verrà portato a termine da Werner Klingler, in seguito al soldo sia dell’industria cinematografica della Germania Occidentale che di quella operante dall’altra parte del muro di Berlino.
Insomma, Rebecca prese ben presto il posto di Titanic nel cuore e nelle ambizioni di Selznick, e Hitchcok vi si adattò senza alcuna difficoltà. Dopotutto lui stesso aveva tentato di acquisire i diritti del romanzo della Du Maurier, mentre stava lavorando a Lady Vanishes, ma questi erano troppo esosi per le sue possibilità economiche. La bizzarria, cui si faceva cenno in precedenza, è che un regista appassionato del cinema hollywoodiano, al punto da guardare con malcelato disprezzo un’industria cinematografica molle e arrendevole come quella britannica, approdi alla fine oltreoceano per dirigere una storia che è la quintessenza dell’umore e delle timbriche “british”.
Rebecca non è solo un melodramma sentimentale tortuoso, in cui il senso di colpa avvince ogni cosa e ne ribalta la prospettiva; è anche e soprattutto una gotica storia di fantasmi, di misteri e di segreti. Una storia di ossessioni e di nomi.

Se il nome di Rebecca è sulla bocca di tutti – e tutti, nessuno escluso, ne parlano e lo citano –, il personaggio interpretato dalla Fontaine è senza nome, privo di identità, schiacciato dal peso di quello della “prima moglie”. Sopperisce alla mancanza della sposina la “very impressive array of first names” del signor de Winter: “George Fortescu Maximilian”, che diventano nella versione italiana “Giorgio Fortebraccio Massimiliano”. Il peso del nome è già il peso di una classe sociale a cui la Fontaine accede senza averne diritto. Potrebbe scalare la montagna sociale se fosse quantomeno una ballerina – come la apostrofa il marito della sorella di Max –, ma per altri motivi.
Rebecca, la prima moglie è un film strutturato fondamentalmente su tre sguardi, tre angolazioni che condizionano la lettura dello spettatore ed entrano con forza in conflitto tra di loro. Il primo, ovviamente, è lo sguardo della seconda signora de Winter, e non è un caso che la prima sequenza, già descritta, sia la soggettiva di un suo deliquio onirico. Lo sguardo dello spettatore non può che empatizzare con quello della protagonista, perché come lei è costretto a entrare in un mondo di cui non conosce regola, struttura, dinamiche. Quando Joan Fontaine si aggira per le enormi stanze di Manderley, la sua meraviglia accompagna quella dello spettatore, come un tour fiabesco in un tempo e in un luogo lontani, impossibili da raggiungere. Non ha infatti collocazione geografica Manderley, non è tracciata su nessuna mappa. È in Inghilterra, una Inghilterra che diventa collocata nel tempo solo quando il mistero di Rebecca torna a essere fatto di materia, con il ritrovamento del panfilo e del cadavere. Allora, nell’ultimo segmento del film, la spazialità può esulare da Manderley, per vivere in aule di tribunale e studi medici. Manderley ha esaurito la sua malìa, il suo magico influsso, il gotico è stato sconfitto (forse) dal contemporaneo. Un contemporaneo che però, a dispetto della maggior parte dei lavori di Hitchcock, non ha fascino, una volta che si esce da un’elite alla quale solo una misera parte della popolazione ha accesso. Come la Montecarlo della prima parte del film.
Il secondo sguardo su cui è costruito Rebecca è quello di Manderley. Un luogo immobile, ma che sembra respirare, e spiare la giovane donna con occhi rapaci, crudeli, mai benevoli. Lo sguardo di Manderley si sovrappone nella maggior parte dei casi a quello dell’arcigna signora Danvers, la governante di Rebecca, ma è in realtà indipendente. È l’immensa magione il vero incomodo che si insinua nel rapporto di coppia, più ancora della già citata Danvers e in maniera ben maggiore di quella della stessa prima consorte. In questa accezione risiede il nucleo gotico della vicenda, nella possibilità (replicata, in modo assai diverso, nella filmografia di Hitchcock solo in Psycho; e non è un caso, forse, che la casa in cui abita Norman Bates, e che sovrasta l’anonimato di un motel come tanti altri, abbia una silhouette al contrario così riconoscibile, “fuori posto”) che un luogo fisico sia agente attivo di una serie di azioni, oltre a edificare un mood. L’atmosfera che si respira in Rebecca, con la fiaba nera che si mescola al melò portando entrambi gli aspetti alle estreme conseguenze, vive e si rafforza nella scalinata, nei grandi ritratti che dominano i corridoi, nella stanza proibita, quella che fu di Rebecca e l’unica, su quel versante della casa, da cui si possa vedere il mare. Il mare, altro elemento guida del film: Rebecca fece naufragio con il panfilo, e c’è un ondivago agitarsi nell’eleganza della messa in scena di Hitchcock. Rebecca è un film fatto di frangimenti e riflussi, azioni che spingono a una rottura e melanconici e rallentati allontanamenti dalla battigia. Per questo, probabilmente, il regista rimpiangeva una generale mancanza di ironia, in realtà neanche così reale (il pranzo con sorella e cognato di Max de Winter ne è un esempio palese).
Il terzo e ultimo sguardo, ovviamente, è quello dello stesso Hitchcock che, nella celeberrima chiacchierata con François Truffaut, per primo considerava il film “poco hitchcockiano”. Una lettura superficiale. Se è vero che alcuni dei conclamati topos del cinema di Hitchcock vengono lasciati in secondo piano, a partire dalla scelta di una donna come protagonista pressoché unica, elemento che collega Rebecca a pochi altri film, Il peccato di Lady Considine, Il sospetto (che di Rebecca può essere considerato una sorta di gemello eterozigoto, e non solo per la presenza in scena della Fontaine) e Marnie, è anche vero che altrove viene più che naturale riconoscere la mano del regista britannico. L’uso della soggettiva, per esempio, è perfettamente connaturato al senso che questo escamotage visivo acquista nella filmografia di Hitchcock, l’identificazione totale del pubblico con il protagonista in scena: nel momento in cui finalmente Joan Fontaine decide di entrare nella stanza che fu di Rebecca, il carrello ad avanzare sulla porta, prima che la mano irrompa ad aprirla (spezzando un’inquadratura geometrica a metà con il suo ingresso in scena da sinistra), anticipa e vive gli stessi umori dello spettatore. Ansia, ma anche desiderio (i due punti cardini del cinema di Hitchcock, tanto per rimanere in tema). È sempre una soggettiva ad accompagnare le parole di Max de Winter durante la sua confessione alla moglie sugli eventi che precipitarono la notte della scomparsa in mare di Rebecca. Una soggettiva che a un occhio disattento potrebbe perfino apparire didascalica, ma racchiude in realtà in sé il senso intimo del filmare. Vedere per raccontare. Solo la visione, solo lo spettacolo al suo più alto livello, è davvero narrazione.

Rebecca, come la stragrande maggioranza dei titoli partoriti dalla mente di Hitchcock, è anche (e forse soprattutto) un film sulle componenti basilari dello spettacolo, sulla finzione, sulla scena e sull’intrigo. Manderley è un non-luogo anche perché è prima di tutto un proscenio, il palco ideale su cui interpretare un dramma. È teatro, con i personaggi che entrano in scena da dietro le quinte, come la Danvers, così emblematica nel suo ruolo di fantasma di retaggi passati da non camminare mai fino a un punto: Hitchcock la fa letteralmente apparire, ectoplasma e reliquia allo stesso tempo, simbolo di un invisibile che è macigno, ma è anche struttura su cui si fonda l’intero intreccio. Quella in corso pare una continua, eterna, mascherata, in cui l’ambiguità maliziosa del ballo si trasforma in crudele gioco di identità. La struttura teatrale del film trova la sua definitiva consacrazione nella ripresa dello schema della tragedia greca: un prologo (il sogno del ritorno a Manderley), un parodo (il segmento nel Mediterraneo), alcuni episodi e stasimi, e un esodo conclusivo.
A venire realmente meno, tra i punti cardine della poetica di Hitchcock, è la figura della persona accusata ingiustamente di un crimine che non ha commesso, elemento che in Rebecca esiste ma si muove solo sullo sfondo, entrando a far parte della narrazione esclusivamente per donarle dinamismo. Ma ciò non fa evadere il film dalla necessità di sprofondare in altri temi a questo strettamente collegati: la crudele ferocia del caso, l’impossibilità umana a gestire gli eventi, la naturale sovrapposizione tra vero e falso, che li rende indistinguibili, l’innocenza che si pone come unico argine al senso di colpa. Ma soprattutto l’esile stabilità su cui si posano le ambizioni umane. Rebecca è un elogio alla fragilità, alla difficoltà a mantenere un ordine, alla devastante e seducente potenza del caos. Solo di fronte alla furibonda tempesta degli eventi la coppia Fontaine/Olivier si ritrova fisicamente, finalmente in grado di elaborare un proprio spazio all’interno di un mondo aspro, quasi mai benevolo.

Rebecca è un mélo che utilizza l’arma del giallo per nascondere la sua anima fieramente gotica, in una miscela di elementi tra loro contrastanti che vivifica la sua classicità ma al contempo esalta un modernismo troppo spesso accantonato durante le letture critiche di un’opera che una cecità poco comprensibile ha sempre ritenuto “minore”. Basterebbe la sequenza in cui la signora Danvers invita, con sottile crudeltà, la nuova arrivata a farla finita con quella vita (o forse a farla finita con la vita tout-court), per accorgersi della potenza visionaria, espressiva e umorale del film.
Per leggere le stratificazioni di Rebecca è necessario raggiungere una terra di nessuno, che non è incubo né sogno, ma che rifugge dalla realtà; un mondo a parte, vagheggiato nella letteratura e che vive di ossessioni, amori, paure. Perché in fin dei conti, nonostante in pochi l’abbiano scritto, Rebecca è l’unico vero bildungsroman dell’intera filmografia di Alfred Hitchcock. La protagonista senza nome cerca disperatamente di lottare per ottenere una sua identità che non sia quella della “seconda moglie”. La sua è una cerca, contro cui si scagliano sia gli elementi esterni, umani e atmosferici, sia la propria indole, timida e sottomessa. Hitchcock firma un fiammeggiante atto di riappropriazione di sé, del proprio essere, dei desideri e delle volontà. Alla fine del film Joan Fontaine non ha più bisogno di sognare “di essere una donna di trentasei anni, vestita di raso nero e con una collana di perle”, immagine riflessa di un’ideale femminile che non le appartiene. Le basterà essere se stessa. Quel “Noi non possiamo tornare a Manderley, ormai è più che certo”, che da principio sembra assumere i contorni della melanconia, è in realtà solo l’accettazione consapevole di una condizione. Una condizione di libertà. Finalmente.

Info
Il trailer di Rebecca, la prima moglie.
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