E la nave va

E la nave va

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Il Trieste Film Festival dà il suo contributo alle celebrazioni felliniane per il centenario del regista proiettando in anteprima la versione restaurata in digitale di E la nave va, mortifera riflessione su una civiltà e su un cinema che andavano sparendo.

Balaustrata di brezza per appoggiare la malinconia

Il transatlantico Gloria N. è pronto a salpare. Siamo nel porto di Napoli, è il luglio del 1914. Giungono i passeggeri per imbarcarsi, circondati da scugnizzi e venditori ambulanti. Arrivano anche le ceneri di una famosa cantante, Edmea Tetua; è per spargere queste in mare che è stata organizzata la crociera verso l’isola di Erimo. A bordo c’è anche un giornalista, che documenta il viaggio. Tutto procede abbastanza tranquillamente finché non vengono raccolti dei naufraghi serbi, in fuga dopo l’attentato di Sarajevo. [sinossi]

Verso l’inizio degli anni Ottanta – e a partire dalla fine degli anni Settanta -, il senso della fine era particolarmente presente in tutta una generazione che assisteva sgomenta a eventi inimmaginabili, come ad esempio il fenomeno delle Brigate rosse, che sembrava annunciare un mondo di violenza e di conflitti senza fine. Invece non fu così, ma la fine di quella civiltà, della civiltà nata con la Resistenza, arrivò lo stesso, anche se sotto forma di anestetizzazione totale, di edonismo berlusconiano.

Fellini fu tra i pochi a riflettere su tutto questo, anche perché dei grandi maestri del nostro cinema fu tra gli ultimi a rimanere attivo, e dunque lungo tutto gli anni Ottanta lanciò strali, attraverso il suo cinema, contro quella che si andava profilando come la mostruosa società contemporanea. E questo percorso, dopo i primi tentativi con Prova d’orchestra e La città delle donne, cominciò a configurarsi in maniera veramente lucida e crudele proprio con E la nave va – presentato ora al Trieste Film Festival in versione restaurata in digitale, a opera della Cineteca Nazione e dell’Istituto Luce Cinecittà -, risalendo alle origini degli orrori novecenteschi e dunque alla base del fallimento della civiltà occidentale nel corso del Secolo breve, la Prima Guerra Mondiale.

Fellini ragiona per via di metafora e, nel fare questo, ritrova la suggestione del transatlantico: solo che invece di far guardare ai suoi personaggi la barca che va (come in Amarcord per il Rex), stavolta li fa salire a bordo, e lui sale con loro, in una parabola che richiama chiaramente quella dell’affondamento del Titanic, ma che è più precipuamente puntata su una riflessione artistica. I passeggeri sono infatti praticamente tutti cantanti lirici o musicisti, chiamati a partecipare a una crociera per celebrare la morte della cantante Edmea Tetua, le cui ultime volontà prevedono che le sue ceneri vengano gettate al largo della costa dell’isola di Erimo. Diventa subito chiaro, perciò, che quella nave dei “dannati” è la nave di un’arte che se ne sta chiusa nel suo guscio, indifferente a quanto le succede attorno, illusa che nulla la potrà disturbare; e invece poi arrivano i fuggiaschi serbi che ricordano ai passeggeri sia l’esistenza della povertà sia il recentissimo scoppio della Grande Guerra (a seguito dell’attentato di Sarajevo). E questi fuggitivi ricordano anche ai sussiegosi artisti, ormai saldamente radicati nell’ottocento, che esiste un’arte popolare, molto più viva delle loro esangui rappresentazioni; un’arte e una vitalità (e uno spontaneo erotismo) cui alla fine i nobiluomini e le nobildonne decidono di abbeverarsi.

Tutto ciò però non è solo una riflessione per melomani – e d’altronde E la nave va lo si potrebbe vedere anche come il vero canto del cigno del melodramma italiano, ormai retaggio di pochi cultori e ormai reperto del passato -, ma è anche una riflessione sul cinema, visto che Fellini verso la chiusura ci mostra il suo set con praticabili e quant’altro; e d’un sol colpo rende esplicita l’equazione – già indirettamente suggerita – tra quegli artisti morenti e il cinema – e il suo cinema – anch’esso morente. D’altronde lo fa anche distruggendo ogni residuo di “quarta parete”, utilizzando l’escamotage narrativo del giornalista che ci fa da Cicerone e parla guardando in macchina, così come tanti personaggi inquadrati guardano verso di noi, a imitare il meccanismo di una camera che riprende in situazioni documentaristiche. Ma, ovviamente, l’escamotage vale al contempo per riflettere sulla fine del cinema (e del suo potere illusionistico) e per stratificare i giochi narrativi e di dispositivo; non serve, invece, quale forma di mimesi visiva da parte del cineasta, il cui stile è al solito lontanissimo dal documentario, così incastonato nella giustezza e bellezza di ogni singola inquadratura.

La riflessione del passaggio dalla realtà al set, accompagnata da un discorso meta-cinematografico, era d’altronde stato già preparato sin dall’inizio di E la nave va, con il titolo scritto come se si trattasse di un film muto e con i primi minuti girati come se si stesse assistendo a delle riprese documentaristiche del 1914. Un’operazione che giocava apertamente con il discorso filologico: vi sono ad esempio gli scatti di montaggio tipici dell’epoca, i totali poco composti caratteristici di certi cinegiornali di quegli anni, vi sono poi le classiche comparse che guardano in macchina, e così via. Stiamo assistendo dunque, ci vuole dire Fellini, anche a un discorso sull’immagine e sulla messa in scena, a un riepilogo rapido della storia del cinema che volge alla sua conclusione e collisione; e non è un caso che in quegli anni nascevano proprio Le giornate del cinema muto, con l’obiettivo preciso di salvare e riportare alla luce un patrimonio che rischiava di finire dimenticato, ma con la finalità indiretta di ripensare al nostro cinema proprio nel momento in cui stava “morendo”.

Con l’ultima sua opera che fu espressione di grandeur produttiva, Fellini celebra al contempo anche Cinecittà, i suoi tecnici, gli scenografi, gli architetti e tutti quanti, impegnandoli a costruire e gestire questa meravigliosa machinerie che è il cinema sognante da lui inventato. Geniale, ad esempio, è la configurazione della nave da guerra austro-ungarica che appare all’improvviso sullo sfondo e che con le sue forme squadrate ricorda il razionalismo inospitale di certa architettura novecentesca; così i cannoni che esplodono dalla nave si muovono facendo rinculare tutta la pedana e suggerendo una danza militaresca esplicitamente teatrale fatta di automatismi e di coazioni a ripetere; così anche il finale, con il giornalista che si ritrova a condividere una scialuppa di salvataggio insieme a un rinoceronte è un altro, ennesimo, sorprendente squarcio visivo, e tra l’altro lo stesso finto rinoceronte, così come il mare finto, è – nella sua finzione esplicita – più vero del vero. E proprio quell’ultima inquadratura in campo lunghissimo in cui si vedono un uomo e un animale ingombrante a bordo di una barca deve essere sicuramente stata presente nella mente di Ang Lee nel momento in cui ha fatto Vita di Pi.

Info
La scheda di E la nave va sul sito del Trieste Film Festival

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