Il cavaliere della libertà

Il cavaliere della libertà

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Il cavaliere della libertà è il primo film sonoro di David W. Griffith, e il suo penultimo lavoro prima del “pensionamento”. Un’occasione per scoprire una volta di più la modernità del regista che ha reso adulto il cinema, in un’epoca in cui viene ricordato soprattutto per il peccato originale di Nascita di una nazione.

Rinascita di una nazione

La prima parte del film descrive la giovinezza di Abraham Lincoln e la sua ascesa da semplice boscaiolo dell’Illinois ad affermato avvocato, la sfortunata storia d’amore con Ann Rutledge e il matrimonio con Mary Todd. La seconda parte è incentrata sull’attività politica di Lincoln, dai dibattiti con Stephen A. Douglas durante la campagna del 1858 alla nomina come sedicesimo Presidente degli Stati Uniti nelle elezioni presidenziali del 1860, fino alla guerra di secessione in cui dirige le forze federali guidandole alla vittoria, deciso a preservare ad ogni costo l’unità nazionale. [sinossi]

David Wark Griffith è morto oramai da quasi settantadue anni, e il suo ultimo film, The Struggle, risale addirittura a ottantanove anni fa, quando Clint Eastwood (per citare uno dei registi statunitensi oggi più longevi) aveva appena spento la prima candelina sulla torta. Griffith è inevitabilmente materia del passato, archeologia del cinema, di cui è comunque tuttora padre indiscusso e portatore sano del “peccato originale”. La colpa di Griffith è ancora nel 2020 (e sarà per molto tempo, con ogni probabilità) quel Nascita di una nazione che, paradosso tra i paradossi, contiene nell’esaltante forma rivoluzionaria del linguaggio un pensiero reazionario, apertamente razzista. Con Nascita di una nazione il cinema entra nell’età adulta, eppure allo stesso tempo volge lo sguardo politico indietro, in una nostalgia confederata che è rimasta, a oltre un secolo di distanza, l’unico appiglio critico di un mondo che fa della rappresentazione il solo elemento di analisi.
Inevitabile dunque che, alla pari di Via col vento, anche Griffith sia messo all’indice, sic et simpliciter, senza voglia di approfondire il discorso. Perché non cogliere l’occasione, per esempio, per riscoprire l’opera di Oscar Micheaux a partire dallo splendido Within Our Gates? Ma si sta pretendendo troppo, forse. Griffith fu in ogni caso il peggior difensore di se stesso e della sua opera, visto che non trovò di meglio da fare, a seguito delle ovvie e giustificate proteste verso Nascita di una nazione, che rispondere con Intolerance, opera monstre con più di un momento epico ma dominata da una progettualità esasperata, retorica della “pace” perfino zoppicante in più di un’occasione, al punto che Sergej M. Ėjzenštejn lo definì “ideologicamente discutibile”, lui che di ideologia e immagini in movimento aveva contezza più d’ogni altro. Forse in modo anche involontario con Nascita di una nazione Griffith era stato il primo regista del cinematografo a dimostrare completa fiducia nel pubblico e nella sua intelligenza. Cos’altro è il montaggio alternato se non una dichiarazione di egalitarismo tra l’immagine e il pubblico che vi si confronta?

Cionondimeno Griffith è una scheggia del passato, considerato vetusto e dunque inadeguato a far parte della contemporaneità. La maggior parte dei cinefili si ferma a Nascita di una nazione e Intolerance, spesso avendone visto solo spezzoni, magari esemplificativi di un’intuizione tecnica o di linguaggio. Solo nel 1908, tra titoli perduti e ancora rintracciabili, Griffith diresse una cinquantina di film, e l’anno successivo si avvicinò al centinaio: può una filmografia così vasta essere ridotta a un paio di titoli, che raddoppiano magari citando Giglio infranto e Le due orfanelle, capolavori mélo brucianti incenso all’altare di Lilian Gish? Come sovente accade in Italia tocca a Fuori Orario – Cose (mai) viste correre in soccorso di una popolazione di appassionati cultori dagli orizzonti visionari ancora troppo ristretti, e così nel cuore della notte i sonnambuli si imbatteranno ne Il cavaliere della libertà, il film che nel 1930 Griffith dedicò ad Abraham Lincoln (nome e cognome del presidente sono, con maggiore sobrietà rispetto alla traduzione italiana, il titolo originale). Un film che risvegliò reazioni contrastanti all’epoca, tra chi riconosceva il talento registico di Griffith e chi lamentava poca dimestichezza con il sonoro, e che oggi è del tutto dimenticato, e in generale poco apprezzato, in parte per l’incapacità supposta a resistere alle usure del tempo, un po’ per il sempiterno sentore di excusatio non petita che trascinano con loro le opere di Griffith dopo la famigerata raffigurazione eroica del Ku Klux Klan. La domanda che sorge quasi spontanea durante la visione de Il cavaliere della libertà è “perché mai un regista che nel 1915 inneggiava alla tempra e al valore dei Confederati appena quindici anni più tardi pone la firma in calce a un’agiografia filmata del più acerrimo nemico del Sud e dello schiavismo?”; una questione legittima, e che merita un approfondimento, ma che allo stesso tempo rischia di fermarsi alla superficie delle cose, semplificando in modo eccessivo la problematica. Si rischia di leggere l’intera esperienza griffithiana in una cornice ideologica che non riesce a contornare realmente la complessità della situazione. La vera e incrollabile ideologia di Griffith risiede nel senso dello spazio e del tempo e nella narrazione che deriva da questa osmosi, nella possibilità di creare un ritmo che rappresenti il senso di ciò che avviene in scena e delle sensazioni che deve trasmettere. È vero che Il cavaliere della libertà affronta a volte con goffaggine la parola pronunciata, ma il cinema di Griffith è stato in realtà sempre sonoro, anche in assenza totale di fonica. Una lunga ballata nel cuore eternamente in conflitto dell’America.

L’omicidio di Lincoln, che qui ovviamente giunge a conclusione della lunga cavalcata del film, era già all’interno di Nascita di una nazione, ma assume ovviamente un connotato completamente diverso, quasi opposto. Il dinamismo che era la ruota motrice del film del 1915 si traduce, in un cinema modernizzato proprio da Griffith (e dai suoi discendenti diretti: John Ford, Raoul Walsh, Erich von Stroheim), in un classicismo depauperato di qualsiasi orpello. Mirabile la costruzione di una sequenza che fa dell’annullamento della suspense il suo punto di forza: il colpo alla testa Lincoln lo riceve con l’omicida sempre fuori campo, e la first lady si rende conto che il marito è deceduto solo quando l’assassino salta sul palcoscenico dichiarando morte al dittatore. Una rappresentazione nella rappresentazione (storica e teatrale) che dimostra una volta di più l’assoluta padronanza del mezzo di un regista che ha saputo cogliere il senso del montaggio prima di ogni altro, e in modo mai banale o semplicistico. Il cavaliere della libertà, al di là delle inesattezze storiche che possono interessare davvero solo gli studiosi, è un film squilibrato proprio quando cerca di stare al passo con dei tempi che sono in ogni caso troppo mediocri per un visionario come Griffith. Il motivo è comprensibile: la United Artist, che pure il regista aveva co-fondato, non aveva granché voglia di vederlo ancora in attività (Griffith al momento delle riprese ha 55 anni), e accettò malvolentieri questa nuova sfida. D’altro canto i tempi dei successi planetari delle sue opere erano oramai lontani, e il sonoro comportava una sfida non secondaria, e di difficile gestione. Ma se nei dialoghi si avverte a tratti una pesantezza espressiva inequivocabile, nelle sequenze di massa e nell’azione Griffith rispolvera uno stile fiammeggiante, tra inquadrature stratificate e campi lunghi di straordinaria costruzione, e una velocità insita nell’immagine che non ha pari in quegli anni a Hollywood. Così come aveva ricordato la Guerra di Secessione durante un conflitto mondiale, ora Griffith rammenta la grandezza di un uomo capace di ergersi al di sopra del proprio Tempo nel pieno della Grande Depressione: e così il suo Lincoln sembra già prefigurare l’avvento alla Casa Bianca di Franklin Delano Roosevelt, che con il New Deal saprà far rinascere la Nazione. Lincoln era un Repubblicano, Roosevelt un Democratico, a dimostrazione di come la politica interna avesse completamente cambiato il proprio corso nell’arco appena di una settantina d’anni (fu proprio il New Deal, anticipato in questo dalla vittoria dell’ala populista di William Jennings Bryan nel 1896, a spingere verso il laburismo il Partito Democratico, precedentemente su posizioni estremamente conservatrici). David W. Griffith è stato il primo e il secondo regista nella storia del cinema statunitense a mettere in scena l’omicidio di Lincoln in una prospettiva completamente storica, e allo stesso tempo completamente cinematografica. Lo ha fatto attraversando il Tempo e confrontandosi con esso, in un campo-controcampo incessante che è la base della dialettica, e dunque del movimento. La base del cinema.

Info
Il cavaliere della libertà in pubblico dominio su Youtube.

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