Calibro 9

Calibro 9

di

Certo, la lesa maestà è la prima impressione che invade l’occhio durante la visione di Calibro 9, sequel ovviamente apocrifo del capolavoro di Fernando Di Leo. Ma questa semmai è solo un’aggravante: il vero problema è lo sguardo di Toni D’Angelo, che si sperde nello spazio inseguendo traiettorie televisive nel tentativo di trovare un senso a una sceneggiatura piatta, ennesima incursione nel sottobosco malavitoso italiano che non ha spessore, e non approda ad altro se non al colpo di scena. Un’occasione sprecata, con Scerbanenco che svanisce all’orizzonte all’ennesimo inseguimento iper-dinamico e in realtà superfluo.

Togliersi o non togliersi il cappello, questo è il problema

Cento milioni di euro spariscono a seguito di una frode telematica. La principale sospettata è una cliente di Fernando Piazza, avvocato milanese figlio di Ugo, noto criminale ucciso anni prima. La madre di Fernando, Nelly, ha lottato tutta la vita perché il destino del figlio fosse diverso da quello del padre, ma ora Fernando si trova in pericolo. La società alla quale sono stati sottratti i soldi è infatti una copertura della ‘ndrangheta, intenzionata a vendicarsi e pronta a far scoppiare una guerra tra cosche. [sinossi]

Non è la prima volta che Toni D’Angelo fa l’occhiolino al cinema di Fernando Di Leo: in una sequenza di Falchi, suo terzo lungometraggio di finzione che anticipa in ordine cronologico Calibro 9, due camorristi guardavano in televisione proprio Milano calibro 9, e l’impianto stesso di quel film sembrava cercare un mélange tra i codici del poliziottesco e quelli del noir hongkonghese, nella rappresentazione di un luogo infernale – Napoli, nel caso in questione – che producesse per partenogenesi la dicotomia tra bene e male, facce della medesima medaglia. Un conto, lo si sa, è citare in maniera laterale, proponendo un omaggio ideale, l’accettazione tacita di un nume tutelare, e un altro è invece prendere a piene mani l’oggetto dell’ossessione/desiderio e modellarlo a proprio piacimento. La materia sacra, nel senso etimologico di superiore al singolo spettatore – e un oggetto di culto, fosse anche solo cinematografico, rientra in tutta evidenza in tale categorizzazione, proprio per la forma collettiva che assume –, è difficile da maneggiare, e assai rischiosa. Si va incontro all’incognita di essere accusati di lesa maestà, nel momento in cui si certifica la possibilità di utilizzare un testo considerato intoccabile per raggiungere il proprio scopo. Si deve dunque necessariamente riconoscere un bel coraggio a D’Angelo, qui senza dubbio di fronte all’opera più ambiziosa della sua decennale carriera, inaugurata dall’affascinante Una notte che, a conti fatti, resta per ora però anche la regia più compatta e matura del quarantunenne cineasta partenopeo. L’ambizione è legata, ça va sans dire, al desiderio di porsi come naturale erede di un universo cinematografico oramai desueto, ma sempre più vivo nella memoria cinefila – l’epoca in cui il cinema “di genere” italiano dominava nel proscenio europeo, ponendo le basi per molti rinnovamenti anche dall’altra parte dell’oceano nel corso dei decenni successivi – ma anche, ed è questo forse l’elemento di maggiore interesse, di scavare condotti d’aria salvifici per la produzione italiana odierna. Si vagheggia d’altro canto da fin troppo tempo la necessità di tornare a produrre in maniera continuativa il genere, salvo poi svicolare dalla prassi continuando a puntellare l’annata cinematografica di “casi” più o meno grandi ed eclatanti (i Manetti bros, Mainetti, tanto per rimanere a due film che avrebbero dovuto segnare il botteghino natalizio se non si fosse dovuto contrastare il COVID-19).

In quest’ottica dispiace constatare come Calibro 9 sia l’ennesima occasione sprecata. Come sovente accade con D’Angelo il film parte da un’intuizione brillante, che rappresenta anche l’unica occasione in cui il film riesce davvero a dialogare con la sua origine: se Di Leo apriva Milano calibro 9 seguendo il percorso compiuto dal denaro di mano in mano, fino alla scoperta della “truffa”, accompagnato dallo strepitoso contrappunto musicale di Luis Bacalov – ripreso in un paio di frangenti anche da D’Angelo, ma su questo si tornerà brevemente più avanti – D’Angelo lo imita in tutto e per tutto, ma spostando l’intera azione nel mondo virtuale. Addio pacchi, involucri di carta, incontri furtivi in piazza del Duomo, oggi il mondo non ha limiti, perché per spostare cento milioni di euro bastano pochissimi secondi, e una buona connessione. Questo non solo agevola i malintenzionati, ma li rende automaticamente internazionali. Ecco dunque che lo scenario di Calibro 9 si allarga e sconfina dalla Germania al Belgio, con i soldi che potrebbero essere finiti in qualche conto alle Cayman. Questa reinterpretazione del mondo criminale sembra spingere Calibro 9 nella direzione giusta, ma purtroppo il film si arena non appena deve cercare di problematizzare i personaggi che ha messo in scena. Tralasciando l’improbabile rilettura temporale – dato che Ugo Piazza è morto nel 1972, come si evince anche dall’inquadratura della lapide, non si capisce come il figlio possa avere meno di quarant’anni, per esempio, e il tempo è stato assai clemente anche con Rocco Musco, visto che Mario Adorf lo interpretò a 42 anni e oggi dovrebbe dunque averne 90, non certo i 74 di Michele Placido – l’azione si affossa non appena dovrebbe spingere sul pedale dell’acceleratore.

Non che manchino inseguimenti e azione nel corso del film, ma l’intero impianto è puramente meccanico, privo di organicità e soprattutto del tutto manchevole sotto il profilo della speculazione sui personaggi, sui loro desideri, sul rapporto con la vecchia e nuova criminalità. Il celeberrimo sfogo del già citato Adorf (“Tu, uno come Ugo Piazza non lo uccidi a tradimento! Tu, uno come Ugo Piazza non lo devi neanche toccare! Tu, uno come Ugo Piazza non lo devi neanche sfiorare! Tu, quando vedi uno come Ugo Piazza il cappello ti devi levare!”), disperato perché non è più in grado di trovare nel mondo della malavita un codice di comportamento che a suo avviso ne sottolineava una pur labile morale, si traduce in Calibro 9 in dialoghi a effetto, una messinscena prevedibile della ‘ndrangheta e che non guarda a Di Leo ma si adagia sulle comodità del piccolo schermo. Più che un sequel di Milano calibro 9 D’Angelo sembra aver filmato il pilot di una nuova serie televisiva, in grado magari di scalzare dal cuore degli appassionati le infinite stagioni di Gomorra. Quando il regista afferma di aver voluto “adattare” l’imprinting visivo di Di Leo a uso e consumo delle nuove generazioni non fa che proclamare la sconfitta del proprio sguardo, anestetizzato a favore di una prassi produttiva priva d’ispirazione, abituata non solo a scegliere sempre la via più facile (si veda in tal senso il colpo di scena finale, non solo prevedibile ma anche sciatto nella sua collocazione all’interno dello schema narrativo) ma anche a smussare gli angoli, privare l’occhio dello spettatore di quella zona buia in cui non si può far altro che percepire ciò che accade, e formare dunque le proprie ossessioni, i propri desideri, le proprie angosce e paure. Si getta l’amo per cercare di pescare anche cultori dell’originale, e quindi ecco lacerti della colonna sonora di Bacalov e apparizioni come quella di Barbara Bouchet – il suo personaggio, come quello di Placido, entrano ed escono dalla storia con una scrittura ben poco calibrata –, ma è poco più di uno specchietto per le allodole. Certo, la già citata lesa maestà è la prima impressione che invade l’occhio durante la visione di Calibro 9. Ma questa semmai è solo un’aggravante: il vero problema è lo sguardo di Toni D’Angelo, che si sperde nello spazio inseguendo traiettorie televisive che non possono che ricondurlo nella mediocrità espressiva. Un’occasione sprecata, con Scerbanenco che svanisce all’orizzonte all’ennesimo inseguimento iper-dinamico e privo di reale senso.

Info
Calibro 9 sul sito del TFF.

  • calibro-9-2020-toni-dangelo-02.jpg
  • calibro-9-2020-toni-dangelo-01.jpg

Articoli correlati

Array
  • Festival

    Torino 2020 – Presentazione

    Torino 2020, trentottesima edizione del festival, segna un punto di svolta: dopo tredici anni in cui, nonostante l'avvicendamento di direttori/registi fino al 2014, la guida era stata nelle mani di Emanuela Martini, al vertice della kermesse sabauda arriva Stefano Francia di Celle.
  • In sala

    Falchi RecensioneFalchi

    di In Falchi, suo terzo lungometraggio di finzione, Toni D'Angelo vira verso il poliziesco, con un occhio a Fernando Di Leo e un altro al cinema hongkonghese. Ambizioni che però restano irrisolte per via di diversi scivoloni, soprattutto narrativi.
  • Archivio

    L’innocenza di Clara

    di Giunto al suo secondo lungometraggio, Toni D'Angelo con L'innocenza di Clara mette in scena un thriller di provincia che, nonostante le buone premesse, si affloscia ben presto.