Baci rubati

Baci rubati

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Baci rubati è il terzo capitolo della pentalogia che François Truffaut ha dedicato al personaggio di Antoine Doinel, che in questo episodio viene riformato dalla leva militare e torna a Parigi dove affronta diversi mestieri mentre cerca di comprendere il proprio rapporto con l’innamoramento. Apparentemente “solo” una divagazione gentile sull’irrequietezza giovanile, in realtà Baci rubati è uno sguardo nostalgico al tempo perduto, e mai ritrovato, che si apre non a caso con le immagini della Cinémathèque Française chiusa. È il Sessantotto, altro tempo perduto e mai ritrovato.

Que reste-t-il de nos amours?

Antoine Doinel viene congedato anzitempo dal servizio militare, a causa della sua instabilità umorale. La prima cosa che fa una volta uscito dal carcere in cui era recluso è recarsi in un bordello, ma non conclude nulla. Visita poi la ragazza di cui è innamorato, ma che si dimostra fredda. Il padre di Christine, la ragazza, gli trova un impiego come sorvegliante notturno in un albergo… [sinossi]
Que reste-t-il de nos amours
Que reste-t-il de ces beaux jours
Une photo, vieille photo
De ma jeunesse
Que reste-t-il des billets doux
Des mois d’avril, des rendez-vous
Un souvenir qui me poursuit
Sans cesse
Bonheur fané, cheveux au vent
Baisers volés, rêves mouvants
Que reste-t-il de tout cela
Dites-le-moi
Charles Trenet, Que reste-t-il de nos amours? (1942)

“Che cosa resta dei nostri amori? Che cosa resta di queste belle giornate? Una foto, una vecchia foto della mia giovinezza. Che cosa resta dei dolci bigliettini, dei mesi d’aprile, degli appuntamenti? Un ricordo che mi insegue senza sosta. Felicità sbiadita, capelli al vento, baci rubati, sogni in movimento… Che cosa resta di tutto questo? Dimmelo”. Mentre Charles Trenet canta una canzone vecchia di ventisei anni, la camera inquadra una trafficata strada parigina (su place du Trocadéro-et-du-11-Novembre) per poi panoramicare in direzione dell’ingresso dell’allora Cinémathèque Française, situata dal 1963 per volere di André Malraux all’interno del Palais de Chaillot. L’ingresso è bloccato, e un breve zoom permette di leggere con chiarezza ciò che è scritto a pennarello su un foglio di carta: «Relâche. La date de réouverture sera annoncée par voie de presse». Su questa inquadratura, prima che scorrano i titoli di testa e mentre la panoramica è ancora in movimento, è comparsa una scritta: «Baci rubati è dedicato alla Cinémathèque Française di Henri Langlois», firmato François Truffaut. Prima ancora di analizzare brevemente il contesto storico e politico in cui il settimo lungometraggio di Truffaut va a inserirsi, occorre sfatare un “mito” abbastanza resistente nella memoria cinefila, anche quella più vicina sentimentalmente al cineasta francese: Baci rubati non è, per quanto se ne possa pensare, un film “semplice”, e ancor meno si tratta solo di una commedia atta a svagarsi – non che la cosa in sé sia da considerarsi deplorevole. Accusata nel 1968 di portare a termine il processo di imborghesimento di Truffaut, la terza avventura sul grande schermo per Antoine Doinel (dopo l’esordio con I quattrocento colpi e il cortometraggio Antoine e Colette, segmento del film a episodi L’amore a vent’anni) è assai meno accomodante di quanto possa apparire a uno sguardo preconcetto, o comunque superficiale, ed è al contrario un lavoro assai stratificato, tra i più complessi dell’intera filmografia di Truffaut. Basterebbe quella prima inquadratura, così spuria rispetto al resto del film eppure fortemente in grado di rappresentarne una parte del senso, per rendersene conto. Una canzone del 1942, un’inquadratura storicamente oggettiva (la Cinémathèque sbarrata, il cinema chiuso), e una dichiarazione d’intenti dello stesso cineasta, che sa scegliersi la parte nella sfida Langlois contro Malraux, e lo fa senza indugi. La Cinémathèque Française è, per Truffaut, “di Henri Langlois”. Il maggio parigino che a Parigi è nato prima di maggio, il 9 febbraio del 1968, e che segnerà nei fatti la prima evidente sconfitta del sistema di potere di Charles de Gaulle, trova nell’autunno dello stesso anno ulteriore vivifica controprova in un film che quella piazza in subbuglio non saprà neanche capire, e bollerà come borghese. Eppure basterebbe quell’incipit di segni sovrapposti (l’immagine in movimento, con la panoramica e lo zoom; l’audio con la canzone di Trenet; la scritta bianca sullo schermo) per capire come l’atto stesso di filmare per Truffaut rappresenti il senso di un’appartenenza civile, la presa di posizione nel contemporaneo e spesso – per l’indole del regista – contro il contemporaneo. Che cosa resta di quelle belle giornate? Felicità sbiadita, capelli al vento, baci rubati, sogni in movimento. Nell’autunno del 1968 per Truffaut è già tutto finito? Può essere, ma ogni tempo è finito una volta che ha superato il suo momento. Finito e irrecuperabile, con il cinema che cerca disperatamente di cristallizzarlo, di permettere alla memoria di non addormentarsi. Cinema come atto di resistenza contro il tempo (Truffaut lo dimostrerà in maniera ancora più palese in almeno tre dei suoi capolavori successivi, Le due inglesi, Effetto notte, e La camera verde), ultima ancora prima della dissoluzione.

A distanza di oltre cinquant’anni dall’uscita del film quell’inquadratura iniziale, con la Cinémathèque che non può più svolgere il proprio compito – quello di essere base portante di una collettività, di essere luogo di coesione sociale, e di diffusione culturale –, colpisce come un pugno allo stomaco, in mesi in cui il cinema è scomparso dalla memoria collettiva, con le sale chiuse in gran parte del mondo. E colpisce anche imbattersi di nuovo in Baci rubati, e nell’incomprensione che in parte lo ha accompagnato nel corso degli anni, e dei decenni. Scambiato per un cine-diario intimista ed episodico, picaresco racconto di sventure lavorative e amorose di un ragazzo, Baci rubati è un dolcissimo e assai amaro – ma anche sarcastico – viaggio nell’impossibilità dell’insubordinazione a una regola, quella della vita sociale accettata come normale, cui è difficile sfuggire se non si ha il coraggio di lasciarsi tutto alle spalle. Un addestramento alla guerra, prima ancora che alla vita (e con ghigno sopraffino Truffaut sovrappone l’arte dello sminamento a quello del corteggiamento, sottolineando l’irregimentamento di ogni questione sociale, a partire dal rapporto amoroso), che costringe Antoine Doinel a scontrarsi con un mondo del quale non riesce neanche a comprendere le regole basilari: per questo decide di lasciare la prostituta che non vuole togliersi il golfino perché ha avuto la bronchite, o permette a un detective privato di entrare nell’albergo in cui svolge il compito di guardiano notturno – perdendo così il lavoro. Antoine Doinel non è refrattario alla società, semplicemente non riesce a comprenderla fino in fondo: è innamorato di Christine, che però sembra non dedicargli la minima attenzione. Si innamora della donna su cui dovrebbe indagare, una volta divenuto a sua volta detective privato, in barba alle regole. Sregolato senza essere ribelle, questo è Antoine Doinel, circondato da un’umanità grigia, triste, disperata e nostalgica nel senso più deteriore del termine (il proprietario del negozio di scarpe, il signor Tabard, si inalbera quando la moglie dà dell’imbianchino ad Adolf Hitler: “È una calunnia! Hitler era un pittore di paesaggi”). Un uomo dà in escandescenze negli uffici dell’agenzia di investigazione, e il collega che ha fatto prima licenziare – come guardiano notturno – e quindi assumere – come detective – Antoine ha un colpo apoplettico mentre si trova al telefono. Si muore di colpo, e non resta nulla, solo un’infinità di anonime tombe al cimitero, senza più memoria, che sovrastano in una scelta di messa in scena illuminante (una panoramica dall’alto verso il basso) chi è ancora vivo, e si agita in una quotidianità inutilmente complessa.

Si riparta dal lieto fine con cui, come da prassi, è necessario terminare una commedia. Antoine e Christine hanno fatto l’amore, si sono dichiarati l’un l’altra (ricorrendo a dei bigliettini d’amore, metà Trenet metà scuole elementari, con un pizzico di rimando al “letteralismo” godardiano) e ora sono seduti su una panchina nei giardini pubblici. Si avvicina un uomo, che da giorni sta pedinando la ragazza, e sbarazzandosi dialetticamente di Antoine si rivolge direttamente a lei. Si riporta qui il breve monologo prima nella versione originale e quindi nella sua traduzione in italiano: “Mademoiselle, je sais que je ne suis pas un inconnu pour vous. Pendant longtemps, je vous ai observée sans que vous ne vous en rendiez compte. Mais depuis quelques jours, je ne cherche même plus à me cacher. Maintenant, je sais que le moment est venu. Voilà : avant de vous rencontrer, je n’ai jamais aimé personne. Je hais le provisoire. Je connais bien la vie. Je sais que tout le monde trahit tout le monde. Mais entre nous, ce sera différent. Nous serons un exemple. Nous ne nous quitterons jamais, pas même une heure. Je ne travaille pas, je n’ai aucune obligation dans la vie. Vous serez ma seule préoccupation. Je comprends. Je comprends que tout cela est trop soudain pour que vous disiez oui tout de suite, et que vous désirez d’abord rompre des liens provisoires qui vous attachent à des personnes provisoires. Moi, je suis définitif. Je suis très heureux”. E quindi, nella versione doppiata: “Signorina, so di non essere uno sconosciuto per lei. L’ho osservata a lungo senza che lei se ne accorgesse. Ma da qualche giorno non cerco più di nascondermi. So che è arrivato il momento. Ecco. Prima di vedere lei non ho mai amato nessuno. Detesto il provvisorio. Conosco bene la vita. So che tutti sempre tradiscono tutti. Ma tra di noi sarà diverso. Noi saremo un esempio. Non ci lasceremo mai, neppure per un’ora. Io non lavoro, non ho impegni nella vita. Lei sarà la mia sola preoccupazione. Io capisco che… Che tutto questo è troppo improvviso perché dica subito di sì, e che prima voglia rompere dei vincoli provvisori che la legano a delle persone provvisorie. Ma io sono definitivo. Sono molto felice”.
Dopo questa dichiarazione l’uomo si volta e si allontana. Christine commenta: “Ma è completamente matto, quello là”. Più dubitabondo invece Antoine, che pure si lascia sfuggire un “Sì, sì, certo”, più per compiacere la sua fidanzata che per altro. Laddove una commedia canonica si sarebbe conclusa nell’atto di conformazione borghese della coppia, finalmente ricongiunta dopo aver attraversato le forche caudine della vita di tutti i giorni – sarà così anche nel successivo Domicil conjugal, tradotto follemente in italiano come Non drammatizziamo… è solo questione di corna –, Truffaut si muove in direzione opposta. Doinel, infine imborghesitosi, si ritrova di fronte l’uomo anti-borghese per eccellenza, il matto, colui che non ha bisogno di lavorare (ma non è il lavoro a nobilitare l’uomo?), che non vuole altro che tutto sia “definitivo”. L’utopia della perfezione assoluta, dichiarata apertamente senza infingimenti alla donna che si vorrebbe concupire.

Se si è scambiato Antoine Doinel come alter ego di François Truffaut ci si è dimenticati del matto, interpretato da Serge Rousseau, che con il regista aveva già lavorato sul set de La sposa in nero, per poi tornare (quasi inevitabilmente) in Domicile conjugal. È lui, che non si è lasciato corrompere in alcun modo dalla società, l’unico uomo libero di Baci rubati, anche se il suo desiderio svanisce nel momento stesso in cui può essere verbalizzato – perché è allora, e solo allora, che la sua minaccia, vale a dire il pedinamento della giovane, si trasforma in pura follia, qualcosa di innocuo ma troppo fuori dai canoni per essere preso in considerazione. Il cinema dei padri viene ufficialmente ucciso da una commedia che solo a uno sguardo molto superficiale può apparire canonica, ideale prosecuzione di un processo industriale classico. Perché è vero che Truffaut riprende non poche istanze della commedia amorosa francese degli anni Trenta e Quaranta – ed è da quel mondo culturale, d’altro canto, che viene la canzone di Trenet – ma in realtà il percorso di formazione di Doinel è anche un atto d’amore e un ritratto di crescita del cinema stesso. Lo spettatore di Baci rubati viene portato dalla detection al dramma amoroso, dalle tribolazioni del thriller a quelle della pochade, dalla commedia sexy alle dinamiche slapstick. Tutti quei luoghi abitati dal cinema e ora – con la Cinémathèque sotto attacco del potere costituito (e costitutivo) – forse destinati solo alla memoria. Truffaut ribalta la prospettiva, perché l’uomo più libero è solo quello che da tutti è considerato pazzo, e che non accetta la prassi borghese, l’abitudine, quello che è moralmente accettabile. Per ribadire il concetto dirige uno dei suoi film più liberi, sempre sul filo dell’improvvisazione, esulando dalla rigida (per quando dorata) gabbia che si era costruito a mo’ di corazza nelle opere immediatamente precedenti – La calda amante, Fahrenheit 451, La sposa in nero. A essere ormai ingabbiato è al contrario il “povero” Antoine Doinel, che pensava di trarre dall’arte e dalla letteratura l’insegnamento a vivere e invece si ritrova edotto solo a seguire la prassi della società, il lavoro, il fidanzamento, il matrimonio. Truffaut, il meno compreso dei registi nel Sessantotto, dimostra nei fatti quella dedica a Henri Langlois e alla cineteca francese. Lo farà anche nel successivo, e straordinario, La sirène du Mississippi, ribattezzato in Italia La mia droga si chiama Julie. Ma questa è un’altra storia, altrettanto incompresa all’epoca, ma da raccontare un’altra volta.

Info
Baci rubati, il trailer.

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