Bianca

Bianca

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Bianca è l’ossessione amorosa di Michele Apicella, e come lui insegna al liceo Marilyn Monroe, una struttura dove la matematica ha lo stesso peso del juke box. Ma Michele, che sa leggere nei numeri, non è in grado di trovare un proprio posto al mondo. L’opera forse più nota della prima parte di carriera di Nanni Moretti, che continua a giocare con i codici del cinema (in questo caso il thriller psicologico) asservendoli a uno scavo di sé impietoso, e allo stesso tempo egotico.

Ogni scarpa una camminata

Michele Apicella è il nuovo professore di matematica del liceo “Marilyn Monroe”, un plesso scolastico decisamente irrituale. Il primo giorno di lezione l’uomo ha modo di conoscere Bianca, una collega che insegna francese: è amore a prima vista. Michele però, che si è anche trasferito in un nuovo appartamento, ha una concezione del mondo abbastanza anomala, e la sua vita è dominata da comportamenti ossessivi. Nella sua sfera logica, lui che della logica ha fatto l’elemento portante della vita, non è per esempio previsto che una coppia possa tradirsi, o decidere di lasciarsi. Una sera, tornando a casa, si accorge che una donna che vive in un appartamento davanti al suo sta baciando un uomo che non è il suo compagno… [sinossi]
Hai troppo sole, poco sole, cos’è che vuoi???
Più acqua, meno acqua???
Perché non parli!?!
Rispondi!!!
Michele Apicella a una pianta sul suo balcone, Bianca.

Fuori dalla cuspide del giallo non sono molti i serial killer all’interno della storia del cinema italiano. In realtà, a ben vedere, non sono poi molti i serial killer della storia del cinema, se si escludono i pazzoidi ossessivi raccontati dal thriller, dall’horror, dallo slasher allo splatter. Perché, dopotutto, raccontare una psicopatologia così evidente, estrema, irrecuperabile, se non si vuole far sprofondare lo spettatore nel rosso della paura, dell’angoscia, ma anche del desiderio? Nel 1984 dunque Nanni Moretti interrompe un rito, svia un percorso, costringe lo spettatore italiano a guardare altrove. C’era chi lo aveva già fatto, ovviamente: il cinema comico, con la sua decisa pretesa di raggirare lo sguardo e il gusto dello spettatore, si era fatto beffe del concetto di omicidio seriale – in Italia spingendosi almeno in un caso in territori inesplorati, e davvero sorprendenti: vedere per credere Che fine ha fatto Totò Baby? –, ma si trattava pur sempre di una parodia. Per quanto però giochi apertamente con il cinema, in Bianca Nanni Moretti non lo ridicolizza mai, né osa ancor di più fare lo stesso con i suoi personaggi. Non è una “presa in giro”, Bianca, e in fin dei conti per quanto sia attraversato da una vena comica destabilizzante e sempre pungente, non ha una gran voglia di ridere il suo regista. Si è parlato spesso e a ragione di Palombella rossa come il giro di vite del cinema di Nanni Moretti, quello che divide la prima parte della carriera dalla fase più diaristica e intimista, contraddistinta dagli unici due titoli diretti negli anni Novanta (Caro diario, per l’appunto, e Aprile): non c’è dubbio che ciò sia vero, perché da un punto di vista dialettico la fase critico/politica viene superata con la fine dell’esperienza del Partito Comunista da un ripiegamento interiore, che poi sfocerà a sua volta in una nuova fase dialettica, ma strettamente corrispondente a un ideale narrativo – da La stanza del figlio, che segna la sua consacrazione internazionale, fino a Mia madre, in attesa ovviamente del nuovo (aggettivo improprio, visto che il film è fermo da oltre un anno per via della pandemia) Tre piani. Eppure quel segnale di svolta definitiva avvertibile nella chiosa di Palombella rossa è già presente a ben vedere in Bianca. Qual è infatti il motivo che spinse la critica a considerare conclusa la prima parte della carriera morettiana? La “morte” di Michele Apicella, che di ritorno con la figlioletta dalla sfortunata finale di pallanuoto ad Acireale ha un incidente stradale, mentre tutti i personaggi del film si protendono verso un sol dell’avvenire di cartapesta. Una morte allegorica, non “sociale”: Michele, per quanto in crisi, è un esponente di spicco della politica nazionale, e soprattutto ha una figlia. Un’eredità non intellettuale, ma concreta, carnale, pulsante.

“È triste morire senza figli”, sentenzia il Michele Apicella di Bianca ai due poliziotti che lo stanno per tradurre in carcere (a interpretare gli esponenti delle forze dell’ordine Nicola Di Pinto e Mauro Fabretti, entrambi fedeli sodali del primo Moretti). Professore di matematica sprezzante, Apicella è un serial killer che fa strage delle coppie che hanno intenzione di lasciarsi o che non vivono in ogni caso seguendo la morale. Finirà in carcere, forse per sempre. “È triste morire senza figli”, la frase dal vivido retrogusto foscoliano che chiude Bianca è già l’epigrafe sulla vita di Michele Apicella. Se l’alter ego per eccellenza di Moretti muore in Palombella rossa è perché a morire è tutto il mondo in cui è cresciuto, e la lente attraverso cui vederlo (“il mio orologio è puntato sull’ora di New York… E il suo?” gli chiede sibillino il conduttore della tribuna politica televisiva, per esempio, preconizzando lo slittamento verso il Patto Atlantico delle forze cosiddette “progressiste”); ma in realtà la psiche di Michele Apicella è già rinchiusa tra quattro mura, vittima di sé stavolta, e non della società che al massimo può essere considerata compartecipe del crimine. Per quanto rassomigli molto a un triangolo scaleno, del tutto squilibrato, Bianca può essere letto come punto d’arrivo di una breve trilogia sull’inadattabilità dell’essere umano al mondo che lo circonda. Una trilogia che inizia ovviamente con Ecce Bombo, il primo film industriale di Moretti dopo la sorprendente rivendicazione di autenticità di Io sono un autarchico, per proseguire con Sogni d’oro e concludersi con Bianca. Nel primo un’intera generazione che generazione neanche sa definirsi è così spasmodicamente alla ricerca di un senso da non arrivare a comprendere il vuoto psicologico e il trauma che vive attorno a sé, dentro sé (il personaggio di Olga è paradigmatico, e non è casuale che il film termini su di lei). In Sogni d’oro la riflessione sulla psicopatologia è triplice, perché investe sia l’Apicella regista – che urla da solo davanti alla telecamera, colto da un horror vacui che non sa fronteggiare – che il personaggio che sta raccontando nel suo nuovo film, un sessantenne che crede di essere Sigmund Freud, e perfino la sfera onirica di Apicella, che sogna di essere un professore di liceo destinato progressivamente a divenire un mostro. Bianca è fin dalla sinossi la ripresa ideale di quel frangente sognato, visto che in questa nuova avventura Apicella è effettivamente un professore di liceo che, dopo essersi innamorato, perde definitivamente il lume della ragione e si tramuta in un mostro. Ma se nel riflusso incubale la creatura in cui si trasformava Apicella era a tutti gli effetti mostruosa (un licantropo), nella realtà di Bianca è un assassino seriale, che sfoga su amici e vicini la sua incapacità di accettare il mondo per quello che è: compromissorio, e in parte dominato dal caos.

Si rifugia nei numeri, Michele Apicella, e nella logica che li lega e li legge. Lì, in quell’iperuranio matematico, sarà sempre al sicuro, distante dalle pulsioni del desiderio, della carne, del sesso. Questo Michele Apicella è senza dubbio il personaggio più idiosincratico dell’intera carriera morettiana, e non a caso è anche il più fragile, il più ottuso, e di conseguenza il più violento, il meno effimero nel rapporto con il mondo tangibile all’esterno da sé. Se questo è il più pericoloso dei Michele Apicella è perché, sembra suggerire Moretti, è intrinsecamente ideologico, incapace di svolgere un pensiero al di fuori di una struttura preconcetta, e considerata idealmente perfetta. Non può trovarsi a suo agio nella follia del liceo “Marilyn Monroe” dove la sala professori ha il juke-box, e i discorsi del preside – sublime Dario Cantarelli, volto tra i più riconoscibili del cinema di Moretti – vertono in direzione di un annullamento totale della storia a favore dei processi commerciali della stessa (“Il Sessantotto è stato l’anno di prova della distruzione del mondo. Ma prima, prima c’è stata quest’epoca felice, incontaminata e pura in cui l’armonia (Claudia Cardinale), la bellezza (la Dino Ferrari), l’intelligenza collettiva (la Juventus di Omar Sivori), l’uomo nella sua sintesi più alta (James Bond) raggiunsero l’acme, il vertice irripetibile della cultura occidentale”, con queste parole viene inaugurato l’anno scolastico). L’Occidente è pop, si affida a microscopici dettagli per rilanciare sul mercato modelli vecchi di un decennio, o forse di più. Ma Michele Apicella non è pop, non fa parte di quel mondo, non sa neanche come leggerlo. Preferisce ucciderlo, per togliersi il pensiero, per sentirsi ancora al sicuro nella turris eburnea della sua mente, là dove forse è persino possibile che lui e Bianca, la collega di cui si è innamorato all’istante, possano vivere insieme, sposarsi, avere dei figli e giocare con loro, come i dirimpettai che tanto invidia al punto da preferire la visione loro a quella della televisione serale.

Moretti, che non ha mai girato un film sul cinema – e non appartengono a tale schiatta in senso stretto nemmeno Sogni d’oro e Mia madre, dove pure il set è parte integrante della narrazione – si aggrappa una volta di più al cinema per permettere alla propria riflessione sul mondo di allargarsi, spandendosi in rivoli ramificati. Ecco dunque la necessità di attingere al genere, di saltellare nell’ambito del thriller, del poliziesco, del giallo. Senza che ci siano regole da seguire, per carità: dopotutto la centrale di polizia è il plesso scolastico Cesare Battisti di piazza Damiano Sauli, nel cuore della Garbatella – i cinefili più accorti ricorderanno lo stabile in una delle sequenze più celebri di C’eravamo tanto amati –, e l’ufficio del commissario è persino nel sottoscala, più in basso del livello della strada (ma lì la location si sposta dalle parti della Tiburtina). Moretti prende dunque gli spunti tipici del thriller psicologico – una figura criminale che svolge un ruolo del tutto normale, perfino maieutico all’interno della società – e li asservisce a uno scavo di sé che diventa scavo di un mondo in preda alla dispersione, ideologica e relazionale, affettiva e strutturale. In questo modo riesce a essere spietato nei propri confronti ma allo stesso tempo a mantenere un egotismo estremo, perfino raffinato nella propria postura. Nel mettere in scena un personaggio completamente idiosincratico Moretti dirige un film dominato dalla medesima idiosincrasia: un raddoppio ideale che spinge Bianca verso le pendici del narcisismo, in cui sprofonda per poi riemergere ogni volta più disperato, come il già citato grido di aiuto urlato da Apicella in Sogni d’oro. “Non voglio morire!”, su questa rivendicazione virulenta terminava quel film. Non vuole vivere, invece, l’Apicella di Bianca. Non sa vivere, né accetta di poterlo imparare – rifugge dallo psicologo messo a disposizione dalla scuola, e interpretato dal babbo Luigi Moretti. Chiuso in sé, si ama e si odia, sentimento duplice che è alla base della psicosi ma anche del cinema del primo Moretti, quello che più di ogni altro decide di indagare se stesso ricorrendo allo stratagemma della finzione (la verità esibita dal dittico Caro diario/Aprile servirà proprio, paradossalmente, per allontanarsi da un’analisi spietata di sé).

In tutto questo Moretti non rinuncia ovviamente al sarcasmo, al divertissement, al paradosso comico, ai toni della commedia che più gli si avvicinano. E Bianca è un vero e proprio fuoco di fila da questo punto di vista: basterà citare la sequenza in spiaggia, a Fregene, con tutte le coppie che si baciano sulle note di Scalo a Grado di Franco Battiato e Apicella che si “adagia” su una ragazza che sta prendendo il sole; la lezione di ginnastica che il professore tiene ai maschi della sua classe al grido di “Bastoni! Anche la Quarta B!”; l’intera sequenza a cena dalla sua studentessa che tocca l’acme nella celeberrima dissertazione sui modi in cui andrebbero tagliati i dolci, che si conclude su “Continuiamo così, facciamoci del male” quando il professore scopre che nessuno a tavola conosce la Sacher torte; la sortita in quel di Villa Borghese con Siro Siri alla ricerca dell’anima gemella; la sfuriata contro il fidanzato di Bianca, colpevole di avere un macellaio di fiducia. Tutti i tic e le ossessioni di Moretti tornano preponderanti, anche perché l’umanità che circonda il protagonista “fa un po’ di tutto, anche se tutto quello che fa è bello ma inutile, un po’ come la matematica pura: magari non serve, ma è sublime”, per rubare le parole che il preside destina al segretario della “Marilyn Monroe” interpretato da Mario Monaci Toschi. Si ride di gusto, guardando e riguardando Bianca, ma poi non si può eludere quella domanda finale di normalità che una persona fuori dal mondo pone a due poliziotti, prima di essere portato via in manette (“Ha figli lei?”). A cosa serve la logica se il mondo in cui si vive tende sempre a sovvertirla?

Info
Una sequenza di Bianca.

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