Marcell Jankovics e l’età dell’oro dell’animazione ungherese
La settimana scorsa, il 29 maggio, ci ha lasciato Marcell Jankovics. Autore tra i più rappresentativi dell’animazione ungherese, europea e internazionale, Jankovics ha realizzato alcuni dei lungometraggi più ambiziosi e creativamente liberi della storia dell’animazione: è suo Johnny Corncob (János vitéz, 1973), primo lungometraggio animato ungherese, prodotto ovviamente dalla gloriosa Pannónia; è suo lo strabiliante Son of the White Mare (Fehérlófia, 1981), psichedelico e irripetibile; è suo il fluviale The Tragedy of Man (Az ember tragédiája, 2011), ennesima dimostrazione di talento, perseveranza, ambizione. Col suo addio, cala definitivamente il sipario su quella che è stata l’età dell’oro dell’animazione ungherese.
Mi hanno fatto capitano di un relitto, per essere l’ultimo a colare a picco con esso […].
Per me la privatizzazione aveva sempre significato la fine della Pannónia:
in uno studio privato c’è spazio solo per lavoro su commissione, che a fatica si potrebbe definire arte.
– Marcell Jankovics1
Due date hanno segnato la storia dell’animazione ungherese. La prima: 1971. Il rigore stalinista è oramai un ricordo, Pannónia Filmstúdió può barcamenarsi senza troppe pressioni tra qualità e quantità, creatività e profitto, e Marcell Jankovics è un giovane e talentuoso animatore con un buon bagaglio di esperienza, successi e premi – i cortometraggi Tendenciar (1967), Hídavatás (1969), Mélyvíz (1970), The Satiric Eye (1971) e Mással beszélnek (1971), la popolare serie televisiva Gustavo (Gusztáv, 1961-77). A due anni dal centocinquantesimo anniversario della nascita del poeta Sándor Petőfi, gloria nazionale, il governo ungherese affida a Pannónia la realizzazione di un film celebrativo. Due anni di lavoro per il primo lungometraggio animato ungherese. Un team di centocinquanta persone, un budget di tutto rispetto e alla guida del progetto uno dei nomi di punta di un movimento vivacissimo, in grande crescita: sulle spalle del trentenne Jankovics si poggiano tutte le speranze degli animatori ungheresi.
Sono passati ventidue mesi: il 3 maggio 1973 viene presentato Johnny Corncob (János vitéz), primo poderoso colpo d’ala della nuova fiammeggiante stagione dell’animazione ungherese, finalmente proiettata verso i lungometraggi. Facciamo un passo indietro: nel 1968, sospinto dalla fama e dalle musiche dei Beatles, Yellow Submarine aveva riempito di colori e immaginazione gli occhi degli spettatori. Tra questi, c’era ovviamente anche Jankovics. Johnny Corncob e Yellow Submarine sono infatti parenti stretti, cavalcano le stesse linee tondeggianti, fluttuanti, libere dal giogo del realismo e dalle regole grafico-estetiche delle produzioni commerciali. Animatore che ha sempre guardato con ammirazione al lavoro dei colleghi, da Norman McLaren a John Hubley, da Frédéric Back a Yuri Norstein, Jankovics mette a frutto anche le suggestioni di Dunning: Johnny Corncob riporta infatti sul grande schermo alcune soluzioni grafiche e cromatiche utilizzate dal regista canadese, inserendole in un caleidoscopio pittorico che guarda alla tradizione ungherese, all’animazione sperimentale europea e nordamericana, al possibile futuro della Pannónia e dei suoi artisti.
Tra Johnny Corncob e il capolavoro Fehérlófia, altro progetto che ha beneficiato di un buon budget e di un team corposo, l’animazione ungherese vive la sua stagione più intensa: la Pannónia coproduce Hugo l’ippopotamo (Hugó, a víziló, 1975) di Bill Feigenbaum, Attila Dargay dirige Mattia delle oche (Lúdas Matyi, 1977) e Vuk – Il cucciolo di volpe (Vuk, 1981), György Kovásznai sperimenta senza freni con Foam Bath (Habfürdö, 1979). Jankovics non resta con le mani in mano: sfiora l’Oscar con il cortometraggio Sisyphus (1974), viene premiato a Cannes per il corto Küzdök (1977) e lavora alacremente alla serie antologica Fiabe ungheresi (Magyar népmesék, 1980-2011).
As far as I can remember, I’ve always thought in pictures and had a vivid imagination. In my animated films the design of every frame is of great importance, as if it would be a painting. Most of the time, and particularly in a mythical, fabulous context, my human characters, even lead characters, are only a minor part of the whole image.2
La circolarità narrativa, grafica e cromatica di Fehérlófia, questo suo essere atemporale, lo pone anche idealmente al centro della fertilissima stagione dell’animazione ungherese – ma anche europea e mondiale. In un certo senso, Fehérlófia è la rappresentazione grafica di quel magma di idee che sono state alimentate nel corso degli anni Sessanta e Settanta da animatori di ogni provenienza, di ogni angolo del mondo. Il film di Jankovics riassume ed elabora quello che è stato e anticipa quello che sarà, dalla circolarità di Tomm Moore (The Secret of Kells, La canzone del mare, Wolfwalkers – Il popolo dei lupi) ai personaggi scontornati di Rémi Chayé (Sasha e il Polo Nord, Calamity, une Enfance de Martha Jane Cannary). Opera totale, magnifica, ipnotica, Fehérlófia vince e al contempo perde la sua battaglia contro l’imperante estetica disneyana: immortale quanto invisibile, il capolavoro di Jankovics ha pochi figli, proseliti e spettatori, ed è invece uno di quei titoli che dovrebbero essere fondamentali nella storia del cinema e nello studio e fruizione delle opere audiovisive. Un giorno, chissà…
To try to express realistic human behavior in animation has limitations. Such attempts in serious animation are often absurdly ridiculous. Why would one imitate reality? Just leave it to living actors! Earthbound reality is not for animation. Animation is a stylized, fantastic world.3
Il mondo fantastico e stilizzato di Jankovics sopravvive all’affievolirsi dell’animazione ungherese, al declino politico\economico della Pannónia e allo scorrere del tempo. Se i titoli di rilievo della produzione nazionale iniziano a scarseggiare – Heroic Times (Daliás idök, 1983) di József Gémes, Snow White (Hófehér, 1983) di József Nepp, La città dei gatti (Macskafogó, 1986) di Béla Ternovszky e poco altro – ed è sempre più complicato mettere insieme un budget adeguato e un team all’altezza, Jankovics non demorde. Nel 2002 porta a termine Song of the Miraculous Hind (Ének a csodaszarvasról) e dieci anni dopo firma l’ennesima monumentale impresa, The Tragedy of Man (Az ember tragédiája, 2011), vero e proprio tour de force storico, artistico e produttivo. I contorni sono quelli dell’opera definitiva, testamentaria, un addio anticipato che aveva però mosso i suoi primi passi nel lontano 1983 con la stesura della sceneggiatura. Entrato in produzione nel 1988, Az ember tragédiája sopravvive al crollo del Muro di Berlino, al grande cambiamento, alla fine di un’epoca e vede la luce dopo ventotto anni – a differenza di Sisifo, la cima del monte è stata finalmente conquistata. Jankovics e la sua arte non colano a picco, ma ancora una volta stupiscono, colmano il nostro sguardo, ci mostrano sentieri creativi alternativi.