Drive My Car

Drive My Car

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Dopo aver ammaliato la critica (online) alla Berlinale con Wheel of Fortune and Fantasy Ryūsuke Hamaguchi conferma il proprio percorso di maturazione con Drive My Car, selezionato in concorso e in presenza al Festival di Cannes. Riflessione sull’amore, la fedeltà “al testo” e la necessità di comprendersi al di là del mero linguaggio, il film prende spunto liberamente da un racconto breve di Haruki Murakami, ma si libra molto più in alto, guardando con fierezza e trepidante partecipazione al cinema classico giapponese.

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Yusuke Kafuku, attore e regista teatrale, sta cercando di recuperare da un terribile lutto familiare che l’ha colpito due anni prima. Accetta di allestire un proprio adattamento di Zio Vanja di Anton Pavlovič Čechov all’interno di un festival che si svolge a Hiroshima. Qui fa la conoscenza di Misaki, una ragazza che il festival gli assegna come chauffeur… [sinossi]

Il Giappone aspettava un cineasta come Ryūsuke Hamaguchi, in grado sia di muoversi in continuità con la storia cinematografica nazionale sia di mettere in mostra uno sguardo sempre indagatore, curioso e alla ricerca del senso dell’umano, delle sue traversie, delle possibilità legate al caso, o destino se si preferisce. E il 2021, l’anno che riapre al grande schermo dopo la pandemia – non ancora superata, checché se ne dica a Cannes – potrebbe diventare anche l’anno della consacrazione definitiva di Hamaguchi come nome tra i più interessanti del cinema asiatico contemporaneo, e giapponese nello specifico. Dapprima a febbraio l’acclamazione collettiva, critica e della giuria (il film ha vinto il Gran Premio della Giuria) per Gūzen to sōzō, vale a dire Wheel of Fortune and Fantasy, uscito in sala anche in Italia poche settimane fa con Tucker Film. Quindi, nella Cannes slittata a luglio, Drive My Car, con cui il regista torna sulla Croisette in concorso a tre anni di distanza da Asako I & II. Era tempo che il Giappone ritrovasse un autore in grado di rinnovare lo sguardo sul mondo senza perdere le coordinate della tradizione cinematografica nazionale: dopotutto la generazione di cui furono splendidi alfieri Shinya Tsukamoto, Kiyoshi Kurosawa, Takashi Miike, Hirokazu Kore-eda – per fare alcuni dei nomi più significativi – ha già festeggiato i sessant’anni o si appresta a farlo. A giudicare dall’entusiasmo che Drive My Car ha risvegliato nel piccolo mondo antico degli addetti ai lavori, tra lacrime in sala e applausi a scena aperta, l’impressione è che una nuova generazione giapponese possa affacciarsi alla ribalta. Per quanto infatti Drive My Car sia l’ottavo lungometraggio di finzione di Hamaguchi (ma i primi quattro erano tutti collegati al suo lavoro all’università, trattandosi o di lavori di diploma o di opere ideate come saggio finale da far svolgere ai suoi studenti), Hamaguchi deve ancora compiere quarantatré anni, e ne aveva trentasei quando stupì e un po’ stordì i partecipanti al Festival di Locarno con le oltre cinque ore di durata di Happy Hour.

Di quell’opera monumentale nella durata restano memorie anche in Drive My Car, a partire dall’idea di segmentare la narrazione in grandi blocchi, e di concedersi incipit che rappresentano, più che un inizio vero e proprio, il preambolo al discorso che dovrà essere affrontato. Rispetto al flusso del tempo di Happy Hour, e anche alle riflessioni sulle relazioni sentimentali che attraversavano tanto Asako I & II quanto e ancor più l’opera tripartita Wheel of Fortune and Fantasy, Hamaguchi in questo caso si concentra sul concetto di testo, e di sua rappresentazione. Già in fase di pre-produzione, d’altro canto, il regista si è trovato a ragionare su questo aspetto, dato che Drive My Car è l’adattamento di un racconto breve di Haruki Murakami, raccolto nell’antologia di racconti Uomini senza donne. Hamaguchi affronta l’originale con estrema libertà creativa, di fatto smentendolo nella maggior parte dei casi: il racconto dell’attempato vedovo che si ritrova a non poter più guidare a causa di un glaucoma e confida all’autista, una ragazza, di aver sempre temuto che la moglie lo tradisse diventa al contrario un’elegia dell’accettazione di un ruolo, e di un rapporto interpersonale che non può basarsi sulla parola (com’era per Murakami) ma sul gesto, sulle sensazioni, sulle vibrazioni che il corpo ha quando entra in relazione con qualcun altro. Basta la prima sequenza per rendersi conto di questo: l’acclamato attore e regista teatrale Yusuke Kafuku è a letto con sua moglie, hanno appena fatto l’amore e lei gli sta raccontando una storia erotica, basata sull’idea di una ragazza che si introduce nella casa del suo primo amore per potersi masturbare sul suo letto. Quella moglie che il racconto di Murakami lasciava fuori, nel ricordo del vedovo, è ora materia viva, pulsante, attiva, ed è il principio stesso del racconto, o per meglio dire dei mille racconti che Drive My Car svilupperà nelle sue tre ore di durata.

Se il primo testo è un racconto orale, che per di più avrà una parte non indifferente nello svolgimento narrativo dell’intera vicenda – venendo allungato e reso complesso a più voci, da quella dello stesso marito a quella di un giovane attore che aveva lavorato con la donna in un serial televisivo –, a irrompere è poi il teatro, in un primo momento con una rappresentazione in scena di Aspettando Godot, e quindi con il vero centro nevralgico del film, l’allestimento teatrale di Zio Vanja che un festival di Hiroshima commissiona all’uomo, due anni dopo la tragica scomparsa della moglie. Per tornare al concetto di preambolo, è solo quando Kafuku si mette alla guida della sua adorata automobile per lasciarsi alle spalle Tokyo e raggiungere Hiroshima che possono apparire i titoli di testa del film – escamotage non nuovo per gli spettatori di Hamaguchi. Ed è solo quando ci si muove a Hiroshima che il vero senso del film, non quello di far elaborare il lutto a un personaggio, ma quello (in questo senso davvero degno di Čechov) della condivisione della vita e dei suoi dolorosi accadimenti, oltre che del valore del lavoro, che il film può davvero iniziare. Hamaguchi prende un testo teatrale in cui la parola è un veicolo essenziale del discorso, e lo trasforma in un testo universale, multilingue. Per la rappresentazione infatti Kafuku sceglie attori provenienti dalle parti del mondo asiatico più disparate: così insieme a un gruppo di interpreti che recita il testo in giapponese c’è una Elena che parla mandarino, un Astrov che discetta in coreano, un Serebrijakov filippino e una Sonja che si esprime nella lingua dei segni. Questa deterritorializzazione della lingua a favore del sentimento è un vero e proprio atto dinamitardo all’interno della pellicola, così come il fatto che il vero dialogo tra Kafuku e la giovane autista che il festival gli ha assegnato – ma qui il glaucoma non c’entra niente, il mélo della perdita della vista a favore della parola ha senso sulla pagina scritta, ma al cinema semmai deve essere ribaltato – nasca da un tramite vocale, la cassetta registrata da Oto, la moglie del teatrante, e con cui l’uomo si esercita sul testo di Čechov.

Le infinite prove a cui Kafuku sottopone i suoi attori, interamente o quasi basate sulla lettura priva di apparente espressione del testo è un altro degli aspetti fondamentali del film: come si può introiettare la parola pura, priva di compromessi? In che modo è possibile scendere nelle radici del senso di quel semplice lemma? È anche questo il discorso tripartito – due volte in un bar una, la più intensa, all’interno della macchina di Kafuku – che il regista fa all’attore che ha scelto per interpretare Vanja, e che quindi è il suo doppio (dopotutto l’uomo sa che ha avuto una relazione intima con sua moglie): accedere al testo non come insieme di battute ma come portato filosofico di una speculazione sul mondo, sulle architetture dei rapporti umani, sul dolore e la perdita. Quella perdita che tutti, chi più chi meno, hanno dovuto affrontare: il doppio lutto di Kafuku, che vent’anni prima perse anche una bambina per colpa della polmonite; il lutto dell’autista, che ha visto la pur detestata madre venire schiacciata dall’abitazione in cui vivevano a seguito di un disastroso terremoto; l’abbandono di Busan, di famiglia e amici dell’attrice e danzatrice muta per spostarsi con il marito a Hiroshima, pur consapevole che lì non troverà nessuno con cui parlare. Hamaguchi tesse una tela elegantissima e grondante empatia, cerca in primis lui stesso di comprendere motivazioni e reazioni dei suoi personaggi, e traccia un’elegia delicata e dolcissima alla vita come rappresentazione, ma anche alla rappresentazione come momento di estrema verità, e condivisione. In questo riesce anche ad articolare un discorso sul Giappone intero, spostandosi da Tokyo a Hiroshima, e quindi all’isola di Hokkaidō, nell’estremo e gelido nord. Un viaggio che è perenne ricerca, come lo studio approfondito di un testo teatrale, ma anche i vagheggiamenti orgasmici di racconti erotici, o il sogno/memoria di esser stati, in una vita precedente, della lamprede, i petromizonti con la bocca a ventosa che succhiano il sangue dai pesci per nutrirsi. La ricerca di un senso della vita che è ricerca della propria intimità, accettazione delle zone d’ombra, desiderio di relazione con il mondo esterno. Hamaguchi tocca il vertice della sua finora ancora breve carriera, e Drive My Car testimonia al di là di ogni dubbio l’affermazione di un nuovo autore.

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