Old

M. Night Shyamalan torna alla regia con Old e firma una riflessione metafisica sulla vita e la morte, e sul tempo nel cinema e del cinema. In molti si stanno interrogando sulla credibilità della trama ma la verità è che la disperazione che trasuda ogni fotogramma di Old non abita più la Settima Arte a Hollywood. Jack Arnold incontra Ingmar Bergman, e insieme provano a fuggire dai paradisi artificiali dell’oggi.

I granelli di sabbia del tempo

Guy e Prisca stanno attraversando un momento difficile, ma tengono tutto nascosto ai figli Trent e Maddox, per non rovinare loro la vacanza speciale che si accingono a vivere: un periodo di relax in un resort esclusivo e poco noto. La proposta dei gestori del villaggio turistico di accedere a una spiaggia oceanica esclusiva e incontaminata sembra impossibile da rifiutare, ma presto i Capa scopriranno che il luogo nasconde un segreto. [sinossi]

Com’è stato raccontato in ogni modo possibile e immaginabile, sconfinando nei territori della mitologia, la prima proiezione de L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat creò scompiglio tra il pubblico convenuto al “Salon indien du Grand Café” di Boulevard des Capucines a Parigi, tra fuggi fuggi generale e persone che si lanciavano in terra nella speranza di evitare di essere investite dalla locomotiva. Potere della suggestione, e ovviamente del cinema. Nel ripensare a questa scena di delirio collettivo – immaginandola vera, perché nel cinema come nel west tra realtà e leggenda vince sempre la leggenda – viene da chiedersi come sia stato possibile che qualcuno pensasse di rischiare davvero la propria incolumità in un cafè ubicato a due passi dall’Opéra, e nel cercare una risposta è impossibile non riflettere sulle dimensioni, e il ruolo che svolgono all’interno della rappresentazione. Le dimensioni spaziali non sono confondibili per uno spettatore, anche per uno spettatore di fine Ottocento: lunghezza, larghezza e profondità dell’oggetto in movimento non possono in nessun caso essere scambiate per “vere”. Fu dunque la quarta dimensione, il tempo, a terrorizzare il pubblico nel gennaio del 1896. Quel treno procedeva alla stessa velocità di un treno reale. Il tempo non mente. Scorre, il treno, come scorre la vita. E se dopotutto è vero che il cinema è vita a 24 fotogrammi al secondo (o meglio era, quando ancora il tempo lo determinava la pellicola), è anche vero che un film sa condensare un’esistenza in un paio d’ore. Il tempo è il ritmo dell’umano progredire, e dunque inevitabilmente morire. Il tempo contiene al proprio interno già l’istante della morte. Il cinema è l’eterna tenzone tra la vita e la morte, tra il tempo percepito e il tempo reale, tra il vissuto e il sognato. Tutte elucubrazioni che M. Night Shyamalan fa sue in Old, quattordicesima regia in quasi trent’anni di attività e quarta da quando, dopo aver lavorato su commissione per Will Smith in After Earth, ha ripreso completamente in mano la propria idea di cinema, preferendo destreggiarsi tra budget più risicati che gli consentissero una maggiore libertà espressiva (Per After Earth furono spesi complessivamente circa 230 milioni di dollari, mentre tutti insieme i successivi The Visit, Split, Glass e Old sono costati 52 milioni di dollari).

Old, racconto di un gruppo di turisti in un paradiso tropicale che si trova prigioniero di una spiaggia in cui il tempo scorre in modo assai più rapido rispetto alla norma (mezz’ora corrisponde all’incirca a un anno di vita), si riallaccia a molti dei temi cardine attorno ai quali ha ruotato la poetica espressiva di Shyamalan: il rapporto genitoriale, per esempio, ma anche il conflitto perenne tra fede e scienza, la crisi coniugale, e l’idea di un protagonista in qualche modo imprigionato in uno spazio definito. Tutti elementi che il regista di origini indiane ha già ampiamente sviscerato nel corso della sua carriera, e che qui vengono declinati in un’ottica in cui il genere di riferimento – ovviamente l’horror – appare sempre più un orpello, o per meglio dire un aggancio, la volontà di aggrapparsi al popolare per discettare di temi universali, cercando risposte agli inesausti interrogativi dell’umanità su di sé e sul senso della propria esistenza. Ma Old, proprio nello scegliere di ragionare su una riscrittura così evidente e dichiarata del tempo (Shyamalan ha lavorato alla sceneggiatura partendo come suggestione da Sandcastle, graphic novel di Pierre-Oscar Levy e Frederick Peeters) non è solo una riflessione, dolcissima e dolente, sull’invecchiamento e la perdita progressiva degli affetti, ma sul senso stesso del cinema. Mettendo in scena personaggi che vivono un’intera vita nell’arco di sole poche ore, Shyamalan non fa infatti altro che teorizzare ciò che il cinema naturalmente fa, sempre, in ogni occasione. La spiaggia maledetta diventa dunque un proscenio cinematografico, un set perenne in cui i personaggi non hanno coscienza del copione: non è casuale che il regista scelga per il proprio abituale cameo il personaggio del “controllore”, che spia quel che accade sulla spiaggia a distanza di sicurezza, da un cannocchiale. È lui stesso il primo spettatore di quel film che sta massacrando uno per uno gli sventurati che si ritrovano chiusi tra la scogliera e l’acqua: una vita che scorre rapida, e finisce.

Il finale è dopotutto fin dai primi film il punto di rottura di Shyamalan con la prassi, tanto da diventare ben presto uno degli elementi più attaccati dai detrattori del cineasta – che vedono di traverso la propensione a un colpo di scena che in qualche modo smentisca ciò che è accaduto fino a quel momento in scena. Il finale di Old non può che essere la morte, visto che il film è la rappresentazione a spron battuto della vita, di tante vite che non sanno trovare un proprio senso perché non sanno dialogare con il tempo ma lo subiscono (Chrystal, ossessionata dalla bellezza estetica, è l’esempio più lampante). In molti, lanciandosi in letture critiche del film, hanno puntato l’accento sulla credibilità e la tenuta della trama, o sulla capacità di Old di reggere sotto il profilo di genere, e dunque di spaventare. Letture legittime, si intende, ma che forse si fermano a un pregiudizio, senza affrontare davvero il senso intimo e profondo di Old. Non si tratta di un horror, per quanto ci siano tutti gli elementi e Shyamalan giochi ripetutamente con lo spettatore – l’apparizione del primo cadavere in acqua è a dir poco esemplificativo –, né c’è mai davvero l’intento di spaventare. O forse sì, ma in un’altra accezione. A fare paura in Old non è il destino amaro cui andranno incontro i personaggi, o una caduta dalla scogliera, e neanche la bizzarria grottesca di una gravidanza con tanto di parto che si sviluppa nell’arco di neanche venti minuti. A fare paura, una paura che dialoga con la mestizia, è la consapevolezza che tutti gli spettatori del film moriranno, prima o poi, abbandonando i figli che li vedranno invecchiare, perdere lucidità, e quindi spegnersi. A far paura in Old è la certezza che da questa spiaggia, la vita, non esiste davvero via di fuga. E che nella contemporaneità ci si ritrova cinquantenni senza neanche aver capito com’è possibile che sia trascorso davvero tutto quel tempo. In quest’ottica, in particolar modo in questa (ben più del passaggio in cui si ragiona sul paradosso della scienza che deve sperimentare ai danni di esseri umani per poter trovare le cure che salvino la maggior parte degli esseri umani in futuro), diventa logico leggere il film come una riflessione sull’epoca pandemica, con le sue restrizioni e il distanziamento sociale che è oramai entrato nella quotidianità di miliardi di persone.

Non è davvero interessante che Old abbia o meno una trama “credibile”, e in fin dei conti nonostante un finale che depotenzia quanto ordito fino a quel momento – il film non sa chiudersi quando dovrebbe, protraendosi inutilmente per alcuni minuti – viene naturale parteggiare per un’opera così coraggiosa da utilizzare il nazional popolare per una speculazione sulla psicologia umana, sul sentimento, sulla relazione affettiva e sulla perdita progressiva e ineluttabile del proprio spazio sociale, e della propria centralità nel mondo. Centralità che Shyamalan inizia a far perdere ai suoi personaggi ben presto, ricorrendo al fuori campo, e sfocando sempre più i contorni – lo splendido zoom che taglia fuori Gael García Bernal mentre gioca con i figli per concentrare l’attenzione sul primissimo piano di Vicky Krieps è un pezzo di maestria registica che meriterebbe approfondimenti ulteriori – così come si sta sfocando il loro ricordo della vita, e del tempo che la contraddistingueva. Si potrà anche pensare che l’artificio di Shyamalan sia eccessivo, ma la disperazione che si respira in Old quasi nessun film d’intrattenimento contemporaneo a Hollywood osa anche solo smuoverla, o guardarla. Cinema senza tempo sul tempo – e sul tempo del cinema, che sta morendo a sua volta perché abbandonato da anni su una spiaggia senza via d’uscita, e senza più neanche controllori che lo guardino a distanza.

Info
Il trailer di Old.

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