Glass

Come sempre spiazzante, Shyamalan porta a termine la sua singolare trilogia sui supereroi: un progetto (ri)nato dalle ceneri dello stesso regista/sceneggiatore, rinvigorito grazie al fertile rapporto con la Blumhouse. Doloroso, (anti)spettacolare, complesso e teorico, Glass è un inno al sovrannaturale, alla diversità, alla singolarità. E al cinema, all’immagine, ai suoi meccanismi più puri. Umanista e politico, Glass ci prende per mano e ci conduce verso l’unica fine possibile.

A True Marvel

La Bestia, il Sorvegliante, la Mente Superiore. Sono sparite altre ragazze, rapite dall’Orda ( Kevin Wendell Crumb e le altre personalità) per darle in pasto alla Bestia. Mescolato tra la folla, David Dunn continua la sua personale e quotidiana battaglia contro la criminalità, contro il male. Lo scontro tra Dunn e la Bestia è inevitabile, ma qualcuno li sta osservando e seguendo da tempo: catturati dalla polizia, vengono rinchiusi in un istituto psichiatrico e sottoposti alla cure della dottoressa Ellie Staple. Lo istituto in cui è rinchiuso da diciannove anni Elijah Price, l’Uomo di Vetro… [sinossi]
Sono tempi mediocri, signora Dunn.
La gente comincia a perdere la speranza.
Per molti è difficile credere che ci siano cose straordinarie dentro di loro,
come dentro chiunque altro.
Elijah Price, l’Uomo di Vetro (Unbreakable)

Il twist ending di Split ci aveva portato in dono un inaspettato shyamalanverse, con tutto quel che ne consegue sul piano pratico e teorico. Un ritorno al luminoso passato (Unbreakable) per proseguire con la poetica produttiva del presente (Split) e del futuro (Glass): in sostanza, il definitivo superamento del dittico blockbuster L’ultimo dominatore dell’aria/After Earth, l’abbandono delle sovrastrutture spettacolari, dei soverchianti effetti speciali, dell’ingombrante divismo della famiglia Smith – prima di Split, accolto generalmente con entusiasmo da critica e pubblico, è fondamentale il successo di Visit e ancor più la sua filosofia produttiva. In questo senso, Glass è un film pienamente shyamalaniano, ma è altrettanto figlio dell’idea di cinema di Jason Blum.

National Allied Publications.
Ovvero, l’eterno ritorno alla Golden Age.

Nella corsa a due tra Marvel (in abnorme vantaggio) e DC Comics, Shyamalan si ritaglia con Glass un proprio spazio, piccolo ma inespugnabile. Non tanto/non solo contro la Marvel, sbeffeggiata a più riprese, e nemmeno come semplice rivalsa su quel cinema che lo ha rigettato: dopo l’opera ponte Split, tanto necessaria quanto minore (splendidamente minore), Shyamalan ripercorre con Glass le direttrici teoriche di Unbreakable, adagiandole non più sulla dimensione cartacea dei supereroi ma sulla loro proiezione cinematografica. Diciannove anni non sono passati invano.
La differenza sostanziale tra Glass e Unbreakable è l’apertura al mondo esterno (i tre personaggi/spettatori/lettori: Casey Cooke, Joseph Dunn e la madre di Elijah) e l’evidente riappropriarsi della sfera etica e politica, di quel filo conduttore che legava più o meno marcatamente i vari Signs, The Village, Lady in the Water, E venne il giorno. Attento osservatore del reale, di un reale che è il suo punto di partenza e di arrivo sul grande schermo, Shyamalan filtra attraverso Glass il presente politico, sociale e morale: lo aveva già fatto, senza dubbio, ma nel chiudere la trilogia alza smaccatamente il tiro, arriva persino a scoprirsi troppo, a prestare il fianco ai – non pochi – detrattori.

«Questa è una galleria d’arte, amico mio, e questa è un’opera d’arte». Il tono educato ma deciso di Elijah Price (Unbreakable), al pari della sua perentoria e più che condivisibile affermazione, non ha perso valore in questi diciannove anni. Anzi. L’eterno ritorno alle origini, alla Golden Age, alla DC Comics e ai suoi eroi (o alla rilettura dei suoi eroi), è un necessario atto di purificazione, di riscoperta della narrazione, dei personaggi, del cinema stesso. L’operazione Glass, apertamente criticabile e già ampiamente messa alla berlina, è un manifesto programmatico che tiene conto dell’invasione marveliana e che a suo modo reagisce: non solo nella direzione produttiva (il paletto del budget basso), ma soprattutto in un’ottica estetica, di linguaggio cinematografico. Un blockbuster anti-blockbuster; cinema puro; cinema che trova il suo senso e significato (anche) nel fuori campo, nella dialettica tra visibile e invisibile, nelle insistite specularità, nei rimandi più o meno nascosti, in un post-moderno rielaborato e asciutto, sofisticato e sagacemente autoreferenziale. Spogliati da tutine e fasci di luce, i supereroi e i villain di Shyamalan sono davanti a noi. Tra noi. E poi…

La sottile arte del MacGuffin e del twist ending.
Ovvero, lo spoiler è davanti ai vostri occhi.

A un certo punto, tra le pieghe narrative di Glass, si erge un enorme MacGuffin. Uno specchietto per le allodole assetate di grandeur produttiva, di scontri titanici, di mondi che crollano. Ma è così Glass, una costruzione/decostruzione del cinecomic, delle dinamiche che dominano negli ultimi anni il grande schermo – e che continueranno a dettare legge per molto tempo. Una costruzione/decostruzione che riguarda anche lo spettatore, chiamato a osservare, leggere, elaborare e capire. Capire prima, già dal semplice titolo, che quello che vedrà è proprio un mastodontico MacGuffin.
Allo stesso modo, i finali e l’atteso twist ending sono legati a doppia mandata alla coerenza interna della Eastrail 177 Trilogy (la semplice lettura di un titolo, anche in questo caso, porta con sé la pre-comprensione di passaggi successivi, nel sempiterno gioco rubikiano di Shyamalan), quindi prevedibili perché cristallini e logici. Deludenti? Dipende dai punti di vista, dalla propria idea di cinema e (probabilmente) dal grado di immersione nel shyamalanverse.
L’irrealizzabilità del MacGuffin non è solo dettata dal budget contenuto, dalla peculiarità della messa in scena shyamalaniana o dal distacco definitivo dal baraccone degli SFX, ma tiene saldamente a terra i piedi della Bestia, del Sorvegliante e di Mente Superiore. Una scelta che ci riporta alle parole di Elijah, «la gente comincia a perdere la speranza. Per molti è difficile credere che ci siano cose straordinarie dentro di loro, come dentro chiunque altro, chiave di lettura espansa di Glass ed ennesimo meccanismo di ribaltamento che coinvolge i tre protagonisti, la melliflua dottoressa Staple, i tre affetti salvifici (Casey, Joseph e la signora Price), per poi allargarsi a macchia d’olio.
In questo senso, Shyamalan architetta un percorso inverso rispetto a Unbreakable, affonda a piene mani nella svolta psicanalitica di Split e tratteggia una lunga seduta collettiva, una presa di coscienza di sé, del naturale e sovrannaturale. Di noi.

L’Apocalisse di Claremont.
Ovvero, grandi poteri e grandi responsabilità.

La Eastrail 177 Trilogy gioca a carte scoperte con l’arte del riciclo, con le occasioni offerte dal mercato, dalla divina provvidenza, dalle logiche della produzione. In questo caso, del produttore Jason Blum(house). La rilettura degli albi dei supereroi e lo slittamento di Glass verso il cinecomic portano con sé frammenti shyamalaniani del passato, anche pratici, tangibili: l’arte del riciclo è anche arte del montaggio, del recupero di sequenze di Unbreakable, di (ri)contestualizzazione dei personaggi. Tutto torna. O almeno tutto torna utile. Nel costruire o ricostruire la trilogia, Shyamalan architetta l’inizio ma anche la fine. Anche in questo caso, le parole sono importanti e contengono schegge di futuro: Shyamalan è a suo modo un novello Chris Claremont, ma questa volta senza intoppi. Fino alla fine.
Le promesse di apocalittici showdown sono ovviamente da pifferaio magico: per l’Apocalisse non bastano venti milioni. E anche perché le apocalissi possono essere intime, interiori; possono guardare verso il basso, verso l’abisso. C’è un’immagine di Glass, come fosse l’ultima tavola di un Batman morente, che riassume perfettamente la parabola dei personaggi sovrumani di Shyamalan. Un’immagine dolorosissima, che sembra nera come la pece. Ci si finisce dentro, inghiottiti, nonostante lo spazio limitato, apparentemente insignificante.
E alla fine si torna sempre lì, alla costruzione dello spazio di Shyamalan, al fuori campo, al non detto, allo scandaglio dell’animo, a questo approccio umanista e politico al cinema di genere; alla rilettura del genere, come dei fumetti, trasposizione della realtà, fonte e ispirazione. Glass è intriso di realismo crudo, quasi spietato, persino dimesso. E ci indica due direzioni: l’alto e il basso, la torre e la pozzanghera, la luce e le tenebre. La normalità e la sofferenza. Quella stessa normalità che traboccava in Get Out, altro oggetto prezioso della Blumhouse. «Sono tempi mediocri, signora Dunn».

Info
Il trailer di Glass.
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