Once Upon a Time in Calcutta

Once Upon a Time in Calcutta

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Il trentottenne indiano Aditya Vikram Sengupta torna a Venezia a distanza di sette anni da Labour of Love con Once Upon a Time in Calcutta, dramma che dietro turpi storie familiari cerca di raccontare l’evoluzione (o involuzione) della città natale del regista. Un’opera non priva di ambizioni ma fin troppo carica di materia narrativa. In concorso nella sezione Orizzonti.

Ela, Bubu e gli altri

Dopo la scomparsa di sua figlia, Ela perde non solo la sua identità di madre, ma anche l’unica ragione per stare insieme a suo marito. Quando la banca le rifiuta un mutuo per una casa, il suo superiore, a capo di un enorme schema Ponzi, le fa un’offerta che fatica ad accettare. Ela ricontatta il fratellastro per rivendicare la sua metà di un vecchio teatro di famiglia, ma questi le oppone un rifiuto, dando a lei la colpa del proprio oscuro destino. Nel frattempo, ricompare l’amore della sua infanzia, che le fornisce l’affetto e la speranza necessari per un nuovo inizio. Proprio quando Ela comincia a vivere la vita che aveva sempre sognato, si rende conto di non essere l’unica persona a scavare tra gli scarti in una città profondamente affamata. [sinossi]

Sono molte le suggestioni che derivano dalla visione di Once Upon a Time in Calcutta, opera terza del trentottenne indiano Aditya Vikram Sengupta (nativo proprio della capitale del Bengala Occidentale) presentata in anteprima mondiale alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia all’interno della sezione Orizzonti. Innanzitutto emerge una riflessione che il film condivide con altre opere provenienti dall’Asia e viste al Lido, come ad esempio il cambogiano White Building di Kavich Neang: in un mondo oramai completamente e compiutamente globalizzato, con tutte le cicatrici che il liberismo del Capitale lascia dietro di sé, anche nazioni che fino a qualche anno – decennio? – fa erano considerate “in via di sviluppo” quando non direttamente “terzo mondo” presentano fenomeni sociali ben noti e storicizzati in Occidente, ad esempio la cosiddetta gentrificazione. Parla anche di questo in fin dei conti Once Upon a Time in Calcutta, e potrebbe essere altrimenti? L’India, settimo stato del mondo per superficie e secondo più popoloso dopo la Cina (si parla di poco meno di cinquecento abitanti per chilometro quadrato), è anche la quarta nazione in termini di potere d’acquisto: ovvio che le immense conurbazioni urbane che la contraddistinguono non possano esulare da schemi economici standardizzati, tra i quali per l’appunto la presunta “miglioria urbana” che presuppone nei fatti l’espropriazione di intere aree e quartieri per installarvi la nuova borghesia metropolitana. Rischia di fare questa fine anche il teatro oramai decaduto e non più in funzione nel quale vive quasi barricato, senza mai uscire, Bubu, il fratellastro della protagonista Ela: lei, che vive il lutto per la perdita della figlioletta, ha bisogno di denaro per potersi permettere il mutuo per l’acquisto di una nuova casa, visto che si sta separando dal marito, e pensa di ottenerlo spingendo Bubu a cedere finalmente quel vecchio teatro dismesso e in disuso. Ma se il fratellastro si dimostra cocciuto cosa si può arrivare ad architettare?

Sengupta, che alla Mostra esordì nel 2014 con la sua opera prima Labour of Love, all’epoca inserita nei lavori delle Giornate degli Autori, ha le idee molto chiare, e partendo dallo spunto narrativo suggerito dianzi vorrebbe aprire uno squarcio nel velo posto di fronte all’India contemporanea, mostrando il rampantismo di un microcosmo sempre più avvelenato dal demone del potere economico, e dunque spinto ad azioni perfino inimmaginabili. Il suo è dunque un discorso parzialmente metaforico ma soprattutto morale, la visione di un mondo disgregato che ha perso le sue radici e fluttua in un contesto socio-economico dominato dalla barbarie, dall’homo homini lupus. La Calcutta mostrata nel film è una città/mostro, cloaca nella quale si annaspa e si può al massimo sperare di sopravvivere: perfino il raggiungimento di una apparente sistemazione, magari in un modernissimo grattacielo fuori dalla cintura del centro, è illusorio, e del tutto transitorio. Per mappare questo mondo in apparente progresso ed evidente autodistruzione Sengupta si lancia in un grande racconto corale, mettendo insieme trame e sotto-trame nel tentativo di permettere allo spettatore la posizione privilegiata (in uno dei grattacieli di nuova costruzione?) per una visione d’insieme.

Il risultato non è privo di fascino, ma alla lunga risulta farraginoso anche perché il regista non riesce ad evitare quelle che appaiono in tutto e per tutto come scelte di comodo, o per meglio dire retoriche: ecco dunque l’amore del passato che torna a palesarsi celando però la verità sulla propria condizione familiare; ecco il criminale che si propone a Ela come risolutore della soluzione portando con sé suggerimenti a dir poco inappropriati; ecco il campo controcampo tra il reale – il teatro abbandonato da decenni al suo destino – e l’onirico – la memoria della donna che con le sue esibizioni aveva reso celebre il locale; ecco, infine, una politica corrotta che ama vendersi come innovativa, visionaria, moderna. Tutti schemi usurati, un po’ come lo schema Ponzi alla base della truffa immobiliare in cui viene messa in mezzo Ela, e che alla lunga appesantiscono un racconto cui avrebbe giovato una maggiore leggerezza espositiva, e forse anche un’ambizione meno evidente. Per questi motivi Once Upon a Time in Calcutta non riesce ad appassionare, se non per alcune singole intuizioni (il crollo non solo metaforico della politica cittadina nel finale, per esempio).

Info
Once Upon a Time in Calcutta sul sito della Biennale.

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