Non cadranno foglie stasera – Il cinema di Andrej Tarkovskij

Non cadranno foglie stasera – Il cinema di Andrej Tarkovskij

L’associazione culturale La farfalla sul mirino, insieme ad Azienda Speciale Palaexpo e CSC – Cineteca Nazionale, organizza dal 28 ottobre al 19 dicembre al Palazzo delle Esposizioni di Roma una rassegna dal titolo Tarkovskij e il trascendente nel cinema, composta quasi interamente da copie in 35mm. A Quinlan è stato chiesto di curare il catalogo della retrospettiva; per l’occasione pubblichiamo l’introduzione del volume.

Chissà se qualcuno si reca in pellegrinaggio a Zavraž’e, cittadina distante circa 400 chilometri da Mosca che nulla ha da segnalare nel corso della sua secolare esistenza se non il fatto di essere stato il luogo natale per Andrej Arsen’evič Tarkovskij. Ben più vicina a Zavraž’e è Jur’evec, una delle più antiche città della Russia, che venne annessa al principato di Suzdal’ pochi anni dopo la morte di Andrej Rublëv, il più grande pittore di icone sacre la cui vita rappresenta non solo uno degli apici della carriera di Tarkovskij ma anche e soprattutto un punto di svolta fondamentale nel rapporto tra il regista e il mondo sovietico. La biografia, la Storia, l’umano, il sovraumano. In una delle sue liriche più celebrate Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij, il padre del cineasta, scrive:

È fuggita l’estate, / più nulla rimane. / Si sta bene al sole / Eppur questo non basta. / Quel che poteva essere / una foglia delle cinque punte / mi si è posata sulla mano. / Eppur questo non basta. / Né il bene né il male / Sono passati invano, / tutto era chiaro e luminoso. / Eppur questo non basta. / La vita mi prendeva / sotto l’ala mi proteggeva, / mi salvava, ero davvero fortunato. / Eppur questo non basta. / Non sono bruciate le foglie, / non sono spezzati i rami… / Il giorno è terso come cristallo. / Eppur questo non basta.

Per quanto si corra il rischio di attribuire significati eccessivi agli accadimenti della vita degli artisti, non è mai insensato studiarne la formazione dell’indole, e quindi dell’emozione, destinate entrambe a confluire nella poetica. Le poesie del padre accompagnano il cinema del figlio, spesso persino in citazioni palesi – si veda il distico ripreso in Stalker, ad esempio –, ma in qualche modo vi gravano sopra. È un gravame, il peso paterno, così come l’ossequiosa fede religiosa della madre (Marija Ivanovna Višnjakova Tarkovskaja): entrambe le tensioni all’infinito – poetico o fideistico che sia – si muovono insieme allo sguardo di Tarkovskij, che cerca di rintracciarne i filamenti nel paesaggio che di volta in volta si trova a osservare. È difficile non trovarsi annichiliti di fronte ai paesaggi di Tarkovskij, così eterei e brutali a un tempo: ci si ritrova piccoli, microscopici, e quindi finalmente e indubitabilmente umani. La biografia, la Storia, l’umano, il sovraumano. Non c’è altro, forse, nell’eredità di immagini che il regista sovietico ha regalato agli spettatori. Si sta bene al sole, nel cinema di Tarkovskij, eppur questo non basta.

L’irresolutezza che è propria dell’uomo, e della sua capacità di (soprav)vivere nonostante la barbarie, la violenza, la guerra, l’inumano che è parte costante dell’umano stesso, trova una sua dialettica aperta con l’immagine perfetta, assoluta, in qualche modo inequivocabile. Se è vero che nel suo cinema il regista sovietico rintraccia l’elemento della fede più spesso e con più forza nell’irrequieta avventatezza dell’infanzia, come accade ad esempio in Nostalghia (e ben lo sottolinea Daria Pomponio riprendendo le riflessioni di Slavoj Žižek), ma anche in Andrej Rublëv (il caparbio Boris, l’unico degno di parola per l’oramai anziano pittore), e a ben vedere nel protagonista dello struggente esordio L’infanzia di Ivan, è l’immagine a fungere essa stessa da elemento sacrale. Non è dopotutto l’immagine l’icona della modernità? E quell’immagine non può che essere naturale, anche quando il cinema di Tarkovskij si muove in direzione dell’artificio più evidente, il superamento del tempo e della tecnologia, la preveggenza della fantascienza: Solaris e Stalker fluttuano apparentemente fuori dagli schemi del concreto – e l’Unione Sovietica non li vedrà, non a caso, di buon occhio –, ma permettono al regista nel superamento del “reale” di ritrovare la purezza pur tragica, pur inquietante (la telecinesi di cui è dotata la bambina), del naturale e della sua forma estrema: il supernaturale. Tra le astronavi di Solaris e lo spazio chiuso, “ballardiano” e “onirico”, come suggerisce nel suo saggio breve Giampiero Raganelli, Tarkovskij si interroga una volta di più sulle derive dell’umano. Può l’uomo, che è artefice della decadenza industriale, ritrovare la scintilla di verità che gli si agita dentro? Può ritrovare la parola, quella parola così pesante da non poter essere pronunciata per tre lustri da Andrej Rublëv ma che poi sa sgorgare senza automatismi, senza premeditazioni? In un cinema che è, come dopotutto quello a lui coevo di Ingmar Bergman, alla ricerca di una risposta al silenzio rumorosissimo di Dio, l’umano può ritrovare se stesso, può esistere in una forma non coatta solo se riesce a entrare in contatto con il territorio che attraversa, con l’orizzonte che è sempre un passo avanti: è così nell’unico vero romanzo di formazione tarkovskijano, L’infanzia di Ivan, come suggerisce Alessandro Aniballi: «Quel bosco incantato rappresenta ancora e sempre la possibilità di aggrapparsi a un residuo di bellezza, in cui poter ritrovare – anche solo per un attimo – il senso dell’esistere, al di là di ogni guerra». La natura come luogo eterno di ringiovanimento, forse perché stagionale e dunque in rivoluzione perpetua – laddove la rivoluzione umana aveva mostrato la sua impasse. Gli alberi, il sole, la neve, la pioggia, l’acqua. Il riflesso, come ne Lo specchio, che è il primo passo per riconoscersi e attribuirsi un senso grazie a un’oggettività esterna da sé. La biografia, la Storia, l’umano, il sovraumano. Queste sono le quattro verità che trovano compiutezza nella poetica di Tarkovskij, e che nella loro fusione – a volte selvaggia, altre volte quasi sussurrata – donano vita all’Arte, eterea e impalpabile creazione, meccanica celeste eppur così terracea, materiale, emulsionata.

Tornando all’interrogativo iniziale, chissà se qualcuno si reca in pellegrinaggio a Zavraž’e, che fu la città natale di Andrej Arsen’evič Tarkovskij. Ma se qualcuno lo facesse non perdesse tempo a cercare icone sacre, o a scandagliare le soffitte nella speranza di rintracciare pezzi di pellicola magari non sviluppata. Non è lì che troverà Tarkovskij, ma nei lungofiume, nelle foreste, nei prati dove pascolano liberi i cavalli, nei rigagnoli e nei corsi d’acqua dove lavarsi/bere/specchiarsi: non per disincanto verso l’umano, ma anzi proprio perché l’umano ha bisogno di un canto per risvegliarsi dall’incubo del proprio potere. Sembra difficile, forse impossibile, eppure come sottolinea in guisa di conclusione Marco Romagna «Basta sapersi arrampicare su un albero».

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Info
La rassegna dedicata ad Andrej Tarkovskij sul sito del Palazzo delle Esposizioni.

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