Malombra

Malombra

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Secondo adattamento per lo schermo dopo quello portato a termine da Carmine Gallone nel 1917, Malombra di Mario Soldati rilegge con estrema fedeltà il romanzo di Antonio Fogazzaro. Nel ventre dell’esperienza bellica il regista trova il cuore nero dell’umano, e lo svela al pubblico in tutta la sua follia. Oscuro e malsano, di grande potenza espressiva, è la seconda delle tre rivisitazioni che Soldati fece delle opere di Fogazzaro, dopo Piccolo mondo antico e prima di Daniele Cortis.

Il palazzo sul lago

La marchesina Marina di Malombra, rimasta orfana, viene accolta nella dimora dello zio conte D’Ormengo, un tetro e sperduto Palazzo in riva al lago, ma con la condizione di potersene allontanare solo quando si sposerà. La giovane donna trova in una vecchia spinetta una lettera nella quale una sua antenata, Cecilia, racconta in modo accorato la prigionia in cui fu tenuta dal marito, il padre del conte, a causa di una relazione avuta con un giovane ufficiale, e chiede di essere vendicata. [sinossi]

“Che pace. Non vi sembra che per tutti, per tutti, ci sia una speranza?”, pronuncia il prete a Edith nel finale di Malombra. Ma quelle parole che sembrano chiudere in modo elegiaco il film, ricongiungendosi fedelmente alla conclusione del romanzo di Antonio Fogazzaro, in realtà hanno come controcampo un piccolo cimitero. La speranza, ultima dea foscoliana, non fugge i sepolcri ma li abita: in un film che con tanta forza e pervicacia si tira fuori dalle pastoie storiche contemporanee – esce nelle sale il 17 dicembre del 1942, proprio il giorno in cui l’Armata Rossa sovietica scatenò sulle truppe italiane l’Operazione Piccolo Saturno, di fatto sancendo la disfatta della campagna di Russia; l’ambientazione gotica e ottocentesca di Malombra si prestava senza dubbio a fungere da diversivo per il pubblico rispetto ai manrovesci bellici – Mario Soldati non si sfila del tutto a sua volta. La speranza, in tempi burrascosi come quelli di guerra, la si può rintracciare solo ed esclusivamente di fronte a una tomba di fronte alla quale qualcuno ha ancora la forza e la pietà di piangere. Si chiude su un lago pacificato, Malombra, ma per le due ore precedenti l’ha rappresentato in tutto il suo lugubre distendersi solo apparentemente calmo ai piedi del Palazzo del conte D’Ormengo: uno specchio d’acqua scuro, non riflettente, che già contiene le due anime della marchesina Marina, la pazzia che è in ogni essere umano pronta a deflagrare, irrefrenabile come la sete di sangue, o d’amore. Non piacque particolarmente ai contemporanei questo nuovo adattamento di Fogazzaro portato a termine da Soldati, che solo l’anno prima era stato acclamato per la sua versione di Piccolo mondo antico (nel 1947, nella neonata Repubblica, firmerà anche una trasposizione di Daniele Cortis): sulle colonne di Bianco e Nero e Cinema Antonio Pietrangeli e Giuseppe De Santis mal digeriscono un’opera che si tiene così distante dal “reale”, dal “concreto”, dal “vero”, per rincorrere suggestioni d’antan, perdizioni melodrammatiche. Soldati, che in un’intervista del 1976 per la rivista Fant’Italia Mario Bava definisce “genio, forse troppo colto per fare il cinema”, non ha paura nel pieno della bagarre critica che traghetterà l’Italia dalle foschie della guerra all’alba del Neorealismo di muoversi in direzione della forma, mai considerata però come elemento accessorio, prurigine estetizzante, ma come elemento per permettere al pubblico – unico vero “padrone” del cinema per il regista torinese – di accedere a una narrazione altra senza sentirsi arto inerte della dialettica.

I corridoi angusti della magione D’Ormengo, le luci fioche delle candele, il buio della notte, le spinette che suonano melodie (con grande senso anche filologico nel film si sentono le note della Davidsbündlertänze di Robert Schumann e dello Scherzo n. 1 di Fryderyk Chopin, a preannunciare quest’ultima la follia che farà esplodere l’intero segmento conclusivo del film), non sono lì solo a suggerire un’appartenenza “di genere”, ma servono come catalizzatori dello sguardo per instillare nel pubblico il dubbio: Marina è pazza o il fantasma di Cecilia esiste e le ha realmente domandato vendetta? Come già nel testo di Fogazzaro, anche Soldati – che partecipa alla scrittura della sceneggiatura insieme a Mario Bonfantini (già al lavoro sulla stesura di Piccolo mondo antico), al giornalista Ettore Maria Margadonna (che diventerà direttore de «L’Avanti»), al poeta Agostino Richelmy, e al futuro regista Renato Castellani, qui impegnato anche come aiuto – lavora in modo certosino sul significato recondito del titolo. Il suo film è composto da poche luci e molte ombre, “male” ombre, ombre che possono nascondere nei loro anfratti il dolore, il terrore, la pazzia, la vendetta, la bramosia, il sangue. Il concetto di possessione, tipico dell’orrore, si trasforma in duplicità dell’essere grazie alla raffinata scrittura del personaggio principale. Marina di Malombra arriva allo sguardo dello spettatore come eroina delle fiabe, e in qualche modo a raccontarla così è già la scritta bianca su fondo nero che anticipa l’inizio del film e che recita: “Marina di Malombra, rimasta orfana e priva di mezzi dopo una vita di agi e spensieratezze, viene accolta dallo zio in un Palazzo solitario sul lago. Lo zio, uomo di severi princìpi, mette una condizione: Marina uscirà dal Palazzo soltanto sposata”. Sulla carta c’è uno zio/orco, e una principessa da liberare – tramite il matrimonio, come d’altro canto capita sovente nelle fiabe. Uno schema che nel gotico non è certo inusuale: il Palazzo con le sue trame e le ali “maledette” non ha forse qualcosa in comune con la magione di Thornfield in Jane Eyre (e pochi mesi dopo l’uscita italiana di Malombra approderà sugli schermi d’oltreoceano l’adattamento del romanzo di Charlotte Brontë La porta proibita, per la regia di Robert Stevenson), o con la Manderlay resa famosa nel 1940 da Alfred Hitchcock in Rebecca?

La fiaba si trasforma progressivamente in orrore, in una discesa agli inferi del delirio che non può essere arrestata, e di fronte alla quale Soldati non ha timore di scomodare il fantastico, di scendere a patti con il soprannaturale: ne viene fuori un’opera sensualissima, di modernità spiazzante e in grado di raccontare un personaggio femminile sfaccettato, del tutto distante dalla bidimensionalità dell’epoca ma già in grado di confrontarsi con le istanze del moderno. È un film spietatamente psicanalitico, Malombra, ma che non dimentica mai la pulsionale selvaggia insita nell’umano, la capacità di cedere alla suggestione, alla credenza, al mito, al racconto popolare. Nella sua autorialità che non dimentica il senso pur senza rinunciare alla forma – e l’accusa di puro formalismo o calligrafismo è un’aberrazione che per fortuna il tempo ha saputo dapprima smussare e poi cancellare – Soldati è già un regista moderno, anticipatore di una genia del pensare il cinema che non gli sarà mai contemporanea. Per questo, come per Cecilia, è il suo spettro a essere stato davvero rivalutato, riconosciuto, pienamente accolto tra le figure più rilevanti del cinema italiano nel corso della sua intera storia. Rinchiudendosi nelle mura spesse di un Palazzo in Valsolda, Mario Soldati compie un gesto di resistenza nei confronti della prassi produttiva di Cinecittà, e il suo film vibra delle note angosciose del suo Tempo, in qualche modo preconizzando la rivoluzione che interverrà di lì a qualche mese, tanto politica quanto cinematografica (l’irruzione in scena di Ossessione di Luchino Visconti). Il cinema italiano non toccherà più i vertici gotici di questo pranzo funebre – come quello che contrappunta l’esaltante e tragico finale – senza doversi bagnare le vesti nello Stige del genere puro e semplice. Il merito, oltre a Soldati, va anche a una straripante Isa Miranda, che come oramai tutti i cinefili sanno, rimpiazzò in scena l’Alida Valli tanto sospirata dal regista.

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