Rue Garibaldi

Rue Garibaldi

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Federico Francioni torna al lungometraggio a quattro anni di distanza da The First Shot (lì in co-regia con Yan Cheng) con Rue Garibaldi, storia dello spaesamento di due fratelli, di origine tunisina ma cresciuti in Sicilia e ora trasferitisi nella periferia parigina. Un film sull’identità, concentrato in un interno di fronte al quale il mondo esterno sembra progressivamente svanire. In concorso in TFFdoc/Italiana al Torino Film Festival.

Ines e Rafik

Ines e Rafik hanno vent’anni e lavorano da dieci. Vivono da poco nella periferia parigina, hanno origini tunisine ma sono cresciuti in Sicilia: la loro esistenza è un movimento precario di interruzioni, cambiamenti e umiliazioni. Nella casa, l’uno è lo specchio dell’altro; qui, il tempo si sospende e la città si fa più lontana. Quando arrivo, mi mostrano orgogliosi la strada di casa loro: Rue Garibaldi. [sinossi]

Rue Garibaldi non è da confondere con Boulevard Garibaldi, splendida via del VII arrondissement parigino, non lontano dalla torre Eiffel e dall’Hôtel des Invalides. Per trovare rue Garibaldi è necessario spostarsi molto fuori dal centro cittadino, in quelle zone che i parigini non sono neanche abituati a chiamare Parigi ma che sono abitati da centinaia di migliaia di persone che vivono la città, ci lavorano, la bramano a distanza. È così anche per Ines e Rafik, fratelli di origine tunisina ma cresciuti in Sicilia, che hanno deciso (prima lei e poi lui) di abbandonare l’Italia insulare per confrontarsi con la Francia; un modo per evolvere, per iniziare a costruirsi un futuro concreto, in grado di donare loro soddisfazioni. Parte da qui il nuovo film di Federico Francioni, che per la prima volta firma un lungometraggio “in solitaria”, a quattro anni di distanza da quel The First Shot che, girato a quattro mani con Yan Cheng, arrivò a trionfare alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro per volontà della giuria capitanata da João Botelho. Rue Garibaldi è un progetto nato in seno all’Atelier Varan, e in quell’ottica era stato già portato a termine un cortometraggio di mezz’ora con il medesimo titolo. Ma sarebbe inesatto considerare questo film, che approda nel concorso Italiana della sezione TFFdoc del Torino Film Festival, una semplice “versione lunga” di quell’episodio breve. Nel lavorare a stretto contatto, intimo, con i due ragazzi, Francioni eradica da subito il concetto di documentario d’osservazione: la sua perlustrazione nella vita dei fratelli Hackel non ha in sé nulla di entomologico, né Francioni propone alcuna frattura alla sguardo dello spettatore. Nell’appartamento in cui viene invitato per girare Francioni vive durante le riprese con Ines e Rafik, ed entra a far parte del film a sua volta. Una scelta forse inevitabile, vista la situazione, ma che riflette l’idea di un cinema che non si tiene a distanza, ma si immerge completamente nella realtà che indaga, e di cui non può non fare parte.

Come può d’altro canto l’immagine pensare di restare neutra quando il mondo che la circonda è dominata da un immaginario sempre più iperbolico, e soprattutto onnipresente? Ines e Rafik vivono nella periferia parigina, ma potrebbero trovarsi ovunque a dire il vero: la loro esistenza è scandita dai cellulari, dai computer, dall’eterna inevitabile connessione con un mondo di cui non hanno una percezione reale se non effimera, e del tutto di superficie. In modo molto coerente Rue Garibaldi propone l’esterno dell’appartamento solo in maniera occasionale, e quasi sempre legata a Rafik, che passa di lavoretto in lavoretto, agognando la possibilità di mettere da parte i soldi per aprire un ristorante in Tunisia. Sogni, la materia di cui è fatto l’uomo ma anche il cinema, e che Francioni non perde mai di vista, pur senza mai cercare di venir meno alla rappresentazione il più possibile credibile del “reale”. Reale che si è sempre più smaterializzato nel mondo globalizzato del Capitale, e che ha raggiunto un grado di illusione mai così forte, penetrante, ottundente. Senza mai abbandonare i suoi protagonisti, e allo stesso tempo senza utilizzarli per scopi “altri”, Francioni rende un piccolo film girato in un anonimo appartamento di una periferia come mille attorno alla capitale francese un oggetto politico, fortemente dialettico nei confronti della contemporaneità, e in grado di fare delle sue ristrettezze parte consistente delle sue virtù.

Al centro dello sguardo ci sono, ovviamente, questi due ragazzi spaesati, fuori dal mondo sotto tutti i punti di vista, che alternano per parlare il tunisino al francese, il siciliano all’inglese, e che cercano di trovare un senso a un’esistenza che non ha più luogo, ma solo smania di successo. Un’idea di successo e riscatto quasi impossibile da realizzare nei fatti ma che permea ogni inquadratura, che Francioni lavora per rendere viva, calda, mai prona agli schematismi del vero. Il finale, che chiude Rue Garibaldi di fatto riaprendolo, sancisce l’impossibilità di uscire dalla narrazione, una narrazione infinita che si perpetua quasi in un ciclo continuo, impossibile da frenare. Ma è anche un modo per Francioni per ribadire l’essenza del cinema, quel suo essere verità e sogno a un tempo, la possibilità di stratificare il senso anche della più semplice delle inquadrature – si veda in tal senso il sapiente utilizzo delle dissolvenze e delle sovrapposizioni. Parigi è lontanissima da rue Garibaldi, quasi un altro pianeta, selvaggio, pericoloso e inavvicinabile (eppure così affascinante). Solo uno stacco di montaggio, solo la potenza del cinema, può ricucire le distanze.

Info
Rue Garibaldi sul sito del TFF.

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