Il nome della rosa

Il nome della rosa

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Sono trascorsi quasi sei anni dalla morte di Umberto Eco, tra gli intellettuali più raffinati e brillanti del Novecento italiano. Il nome della rosa, la sua più celebre creatura letteraria, venne trasformata in film da Jean-Jacques Annaud nel 1986: potendo contare su un cast di fama internazionale, da Sean Connery a F. Murray Abraham passando per Ron Perlman e il giovanissimo Christian Slater, il regista francese punta tutte le carte sulla facciata mystery e thriller della vicenda, senza per questo venire meno a una interessante messa in scena del medioevo.

Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus

1327, Italia settentrionale: una serie di efferati delitti sconvolge la vita di un monastero benedettino. Trovandosi in loco per prendere parte a una discussione teologica sulle tesi dei Francescani, il dotto frate inglese Guglielmo da Baskerville inizia delle indagini facendosi aiutare dal giovane novizio che lo accompagna, Adso da Melk. Il mistero sembra ruotare attorno alla scomparsa di un volume dalla ricca biblioteca dell’abazia. [sinossi]

Così principia Il nome della rosa, il romanzo che nel 1980 rese il nome di Umberto Eco famoso ai quattro angoli del globo: «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Questo era in principio presso Dio e compito del monaco fedele sarebbe ripetere ogni giorno con salmodiante umiltà l’unico immodificabile evento di cui si possa asserire l’incontrovertibile verità. Ma videmus nunc per speculum et in aenigmate e la verità, prima che faccia a faccia, si manifesta a tratti (ahi, quanto illeggibili) nell’errore del mondo, così che dobbiamo compitarne i fedeli segnacoli, anche là dove ci appaiono oscuri e quasi intessuti di una volontà del tutto intesa al male. Giunto al finire della mia vita di peccatore, mentre canuto senesco come il mondo, nell’attesa di perdermi nell’abisso senza fondo della divinità silenziosa e deserta, partecipando della luce inconversevole delle intelligenze angeliche, trattenuto ormai col mio corpo greve e malato in questa cella del caro monastero di Melk, mi accingo a lasciare su questo vello testimonianza degli eventi mirabili e tremendi a cui in gioventù mi accadde di assistere, ripetendo verbatim quanto vidi e udii, senza azzardarmi a trarne un disegno, come a lasciare a coloro che verranno (se l’Anticristo non li precederà) segni di segni, perché su di essi si eserciti la preghiera della decifrazione». Così, invece, termina (si perdoni l’orrendo delitto di spoiler, oramai considerato da cinefili e non come l’avvento dell’Anticristo): «Mi inoltrerò presto in questo deserto amplissimo, perfettamente piano e incommensurabile, in cui il cuore veramente pio soccombe beato. Sprofonderò nella tenebra divina, in un silenzio muto e in una unione ineffabile, e in questo sprofondarsi andrà perduta ogni eguaglianza e ogni disuguaglianza, e in quell’abisso il mio spirito perderà se stesso, e non conoscerà né l’uguale né il disuguale, né altro: e saranno dimenticate tutte le differenze, sarò nel fondamento semplice, nel deserto silenzioso dove mai si vide diversità, nell’intimo dove nessuno si trova nel proprio luogo. Cadrò nella divinità silenziosa e disabitata dove non c’è opera né immagine. Fa freddo nello scriptorium, il pollice mi duole. Lascio questa scrittura, non so per chi, non so più intorno a che cosa: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus». Inizia e si conclude con un’ammissione di inconsapevolezza, Il nome della rosa, perché la scrittura del libro – che è nei fatti uno pseudobiblion, ricorrendo Eco allo stratagemma del documento fittizio, e del manoscritto ritrovato – viene lasciata “non so per chi, non so più intorno a che cosa”.

Di fronte a una dichiarazione resa in modo così candido è difficile pensare di poter aggiungere alcunché. Un problema che qualche anno dopo la pubblicazione del romanzo debbono essersi posti anche tutti coloro che si trovarono a lavorare all’adattamento cinematografico ordito da Jean-Jacques Annaud, regista allora sulla cresta dell’onda per il successo ottenuto con il bizzarro – ma nel complesso non particolarmente compiuto – La guerra del fuoco, che nel 1981 si lanciava nella folle impresa di creare un film in grado di seguire i canoni dell’opera d’avventura ma ambientato nella Preistoria, ben 80.000 anni fa. Anche con Il nome della rosa il balzo indietro nel tempo è notevole, più di sei secoli, ma se i protagonisti de La guerra del fuoco si confrontavano tra loro ricorrendo all’ulam, linguaggio fittizio creato per l’occasione da Anthony Burgess (uno che di lingue inventate se ne intendeva, se si considera il nadsat utilizzato per Arancia meccanica), la parola è veicolo potente, e centrale, nell’abbazia benedettina teatro di una serie di efferati e in parte incomprensibili delitti. Annaud è un regista d’azione, lo ha già dimostrato e tornerà a farlo in futuro – L’orso, L’ultimo lupo –, e in questo senso vedergli affidata la messa in scena di un romanzo che fa del senso e del significato della dialettica, della dissertazione, dello studio e della letteratura uno dei cardini del discorso può essere frustrante. Ma è proprio nella comprensione del proprio ruolo, e della propria poetica espressiva, che Annaud riesce a cogliere un aspetto di forza del romanzo fino a farlo completamente suo.

Poco lo spazio destinato alla discussione sulle eresie, alla progenitura dell’anabattismo, alla speculazione filosofica sul riso e su Aristotele; anche il rimando alle gesta di fra’ Dolcino si riduce alla necessità di collocare antropologicamente e politicamente i personaggi di Remigio da Varagine e del deforme Salvatore, che ha il “diritto” di esprimersi in un esperanto volgare che mescola latinismi a un grammelot quasi teatrale (rimarchevole l’interpretazione di Ron Perlman, che si trovò a sostituire il caratterista Salvatore Baccaro, morto durante il lungo periodo di pre-produzione, durato quasi cinque anni) e diventa suo malgrado un personaggio iconico e iconoclasta a un tempo, sacro e blasfemo, massima rappresentazione materiale della dualità insita in un luogo come l’abbazia, che pretende di preservare nello stesso momento sia la meditazione che la disquisizione sul potere temporale. Se la filosofia e la teologia sono materie con cui Annaud dimostra di non saper entrare in forte contatto, sotto il profilo dell’azione il film si palesa come un meccanismo ben oliato, in grado di dosare il mistero ambiguo dell’ambientazione a un grand guignol non esibito ma verso cui non c’è alcuna reticenza. Ne viene fuori un testo ovviamente semplificato rispetto alle sfumature della matrice letteraria ma da cui il thriller sgorga in modo naturale; cantore della carne e della materia, Annaud comprende soprattutto i turbamenti del giovane Adso, cui presta il volto un allora sedicenne Christian Slater, mentre predilige una interpretazione manichea dei personaggi, divisi senza troppe sfumature tra “buoni” e “cattivi”. I primi, in un rimando al cinema di cappa e spada d’antan, andranno incontro a una sorte benevola, mentre per i secondi c’è solo la morte.

Se quest’ultimo aspetto appare quello più delittuoso nei confronti del romanzo, dove invece la natura umana viene indagata in modo assai meno superficiale, ed è impossibile pensare di sfuggire all’inquisizione – come invece accade nel film alla povera giovane di cui si innamora Adso –, c’è da dire che Annaud precisa fin da subito come la sua sia una realizzazione “sul palinsesto del romanzo di Umberto Eco”, in qualche modo giustificandosi agli occhi di chi arriverebbe addirittura ad accusarlo di eresia. Dispiace semmai che non ci sia stata l’occasione di elaborare una sceneggiatura più raffinata (ci lavorarono in quattro, e di enorme peso come Andrew Birkin, Gérard Brach, Howard Franklin e Alain Godard, e non furono in grado di costruire un significato del titolo che fosse più elevato della semplice memoria erotica di Adso, come suggerisce la voce narrante nel finale) e di utilizzare in modo più assennato la Storia – qui si fa persino morire Bernardo Gui! –, ma come indagine quasi “sherlockiana” Il nome della rosa funziona alla perfezione (a Conan Doyle fu ispirazione per Eco, come testimonia il nome dell’eroe protagonista che rimanda alla “bestia dei Baskerville”), e la bella ambientazione innevata, l’intelligente utilizzo della scenografia e un villain come quello regalato dall’ottantenne Fëdor Fëdorovič Šaljapin garantiscono un’atemporalità salvifica. Tra i maggiori successi commerciali europei degli anni Ottanta, Il nome della rosa non sembra provenire da quell’epoca, né sembra in realtà appartenere a un tempo preciso. In quest’ottica torna a uniformarsi alle volontà di Eco, e alla stupefacente qualità della sua scrittura. In un momento storico in cui il medioevo e il tempo “classico” acquisivano una pur minima centralità nell’immaginario collettivo (nell’arco di un paio di anni vengono prodotti, oltre a questo titolo, anche Ladyhawke, Highlander, L’amore e il sangue: ma si potrebbe citare anche il Monicelli di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno), Annaud rivendicava la modernità di un giallo simile, vincendo a suo modo la scommessa.

ps. Il romanzo di Eco è stato “ridotto” e serializzato in otto puntate per il piccolo schermo da Giacomo Battiato nel 2019, in un’operazione produttiva, artistica e narrativa che è lecito, contrariamente al film di Annaud, definire uno scempio.

Info
Il nome della rosa, trailer.

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