Alcarràs

Alcarràs

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Vincitore dell’Orso d’Oro alla Berlinale 2022, Alcarràs della spagnola Carla Simón è un’elegia della vita rurale che oscilla tra Erice e Čechov, un affresco di un mondo che sta scomparendo. Ma con qualche cedimento estetico.

Il giardino dei peschi

La famiglia Solé trascorre l’estate raccogliendo pesche nel frutteto di Alcarràs, un piccolo villaggio della Catalogna. Ma il raccolto di quest’anno potrebbe essere l’ultimo poiché i nuovi proprietari intendono sostituire i peschi con pannelli solari e il sostentamento della famiglia è così minacciato. [sinossi]

Opera seconda della giovane catalana Carla Simón, dopo Estiu 1993 del 2017, sulla sua esperienza di perdita dei genitori quando era piccola, Alcarràs è il film vincitore dell’Orso d’Oro alla Berlinale 2022. Carla Simón tratteggia un quadro di vita rurale, incentrato sulla famiglia Solé, che vive in un vecchio casolare circondato da una grande piantagione di peschi. Il lavoro di raccolta della frutta, oltre alle pesche di diverse varietà, anche i fichi, impegna tutta la famiglia, con i loro braccianti ormai quasi tutti di origine africana.

Sono evidenti due modelli cui Carla Simón guarda, per tutto il film. Uno è quello del grande regista Víctor Erice. Quei volti saggi dei vecchi della famiglia, quelle esperienze infantili della vita di campagna, quelle dinamiche del pueblo, ricordano profondamente per esempio Lo spirito dell’alveare, e come la bambina protagonista di quel film, Ana, anche le piccole della famiglia Solé hanno le loro prime esperienze di contatto con la morte, che nella cultura contadina si manifesta quotidianamente, la si vede ovunque, tra gli animali selvatici e quelli da macello, senza il tabù che e stato eretto nel mondo cittadino. Così è l’imbattersi con i conigli morti ritrovati tra i filari di peschi, ma con la sensibilità del bracciante di colore che porta, con la sua preghiera, un contributo multiculturale alla comprensione della fine della vita.

L’altra coordinata che il film segue è quella del Giardino dei ciliegi di Čechov di cui condivide quel senso di decadenza di un mondo sull’orlo del baratro, la cui fine è definitivamente sancita dalla recisione degli alberi di quel giardino. La narrazione piatta è proprio come quella del grande drammaturgo russo: sembra che non succeda niente, in realtà sta succedendo tutto. Il ragazzo che coltiva marijuana di nascosto tra le piantagioni, le ragazzine che si divertono nei loro balli o nei giochi in piscina. La drammaturgia è nel passaggio di un’epoca, di un mondo rurale ormai divenuto superfluo.

L’agricoltura dei nostri paesi è minacciata dalla globalizzazione dei mercati, invasi da prodotti coltivati in paesi lontani dove la manodopera costa meno. Ovunque, come anche da noi, manifestazioni con trattori. Ma la famiglia Solé non vi partecipa, per poi riconoscere nei servizi televisivi questo e quell’altro collega agricoltore. Non sembra vero a loro che quel mondo, in cui vivono da generazioni, possa non esserci più. E paradossalmente la società rurale di Alcarràs soccombe per fare spazio all’energia pulita dei pannelli fotovoltaici, simbolo di quella rivoluzione ecologica che dovrebbe rappresentare la salvezza dell’umanità.

Carla Simón mette in luce le contraddizioni alla base della nostra coscienza ambientale. Ma, spingendosi nell’idealizzazione di quel mondo agricolo, scivola a volte in un’estetizzazione da pubblicità del Mulino Bianco. Quei frutti tutti così perfetti sugli alberi, quelle nettarine come lucidate, quelle percoche senza la minima ammaccatura, quei fichi così carnosi, quei pomodori rossi sgargianti. Sembra che la regista non abbia esperienza diretta della vita contadina. Eppure, come il precedente, anche questo film presenta una forte componente autobiografica per Carla Simón, perché i suoi zii coltivano pesche.

Info
Alcarràs sul sito della Berlinale.

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