Monica

Dopo Hannah, Andrea Pallaoro realizza un altro ritratto femminile con Monica, in concorso a Venezia 79, mostrando una maggiore coerenza rispetto al passato tra la minuziosa estetizzazione e la solitudine esistenziale della protagonista, il cui corpo curatissimo è già di per sé un corpo estetizzante. Resta però una certa difficoltà nel caratterizzare i personaggi e i loro rimossi.

God Bless Monica

Allontanatasi da tempo dalla famiglia, Monica torna a casa per rivedere la madre gravemente ammalata. [sinossi]

Se nel precedente film di Andrea Pallaoro, Hannah, i leziosismi stilistici apparivamo fini a se stessi e non coerenti nel raccontare il disfacimento fisico e mentale della protagonista, stavolta le cose vanno meglio con Monica, presentato in concorso a Venezia 79. Difatti, quello stesso mescolare nel quadro parti del corpo della protagonista (come ad esempio semplicemente i capelli) con oggetti di vario genere (come il finestrino di un’auto), e dunque questa sorta di oggettivizzazione del corpo della protagonista – che in Monica è l’attrice transgender Trace Lysette – qui funziona proprio perché il personaggio è ossessionato dalla cura di sé, e ne è pervaso a tal punto da diventare la chiave per leggere il suo carattere, vale a dire l’egoismo, e – di conseguenza – la solitudine.

Per tutta la prima parte del film Pallaoro non ci mostra praticamente mai dei totali, ma insiste con dei campi stretti proprio a sottolineare la chiusura fisica in cui si trova racchiusa e reclusa la Monica del titolo, tardando anche a rivelare i motivi che l’hanno portata a questo isolamento, un meccanismo che il regista aveva d’altronde già utilizzato in Hannah. Vediamo la protagonista usare compulsivamente il telefono nel disperato tentativo di recuperare il contatto umano con un suo presunto ex – che non apparirà mai – a cui manda vocali su vocali in cui prima si fa aggressiva per essere stata abbandonata poi si fa docile, e così via in un patetico andirivieni emotivo. Perciò, anche quando viene contattata per tornare nella casa di famiglia perché la madre è malata da tempo, lei continua comunque a pensare solamente a se stessa, condizionata anche dalla dura frattura familiare che l’aveva spinta ad allontanarsi.

Ma ad un certo punto qualcosa scatta: Monica comincia a riappacificarsi con la madre, riprende a dialogare con il fratello, rientra man mano all’interno della famiglia. Ed è proprio in questa fase che le cose per Pallaoro si fanno più complicate: quando infatti arriva il momento dei chiarimenti e della rievocazione del passato, Monica vacilla e mostra le difficoltà cui il regista spesso incorre, più in fase di scrittura che di regia, nell’approfondire e nello stratificare i chiaroscuri dei personaggi. Allo stesso tempo, comunque, cambia anche la regia, che si fa meno ossessivamente “reclusa” con Monica, e si apre invece a totali, ad ambienti, a sguardi un po’ più di insieme. E il cambio di registro è anche condivisibile, visto che Monica ora non si dedica più al proprio corpo ma a quello degli altri – dalla madre malata al figlio più piccolo del fratello -, ma questo per l’appunto accade giusto quando la scrittura è più debole, finendo così per rivelare anche qualche limite recitativo degli attori costretti in situazioni troppo complesse da gestire. Pensiamo in particolare al lungo chiarimento che avviene tra Monica e suo fratello all’interno della piscina abbandonata della casa di famiglia: lì Pallaoro, quando forse dovrebbe essere più emotivo anche registicamente, costringe piuttosto gli attori a una fissità eccessiva, facendoli mettere in posa in maniera troppo studiata.

Il percorso intrapreso da Pallaoro sembra comunque potersi rivelare alla lunga interessante, visto che il suo raffinato modo di girare ma anche la scelta di raccontare spesso per ellissi e di lasciare volutamente delle zone d’ombra nel racconto, sono qualità rare nel cinema italiano contemporaneo che, anzi, tende troppo spesso a voler spiegare tutto per paura che poi lo spettatore non capisca.

Info
La scheda di Monica sul sito della Biennale.

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