La pecora nera – 100 anni di Luciano Salce

La pecora nera – 100 anni di Luciano Salce

A cento anni dalla nascita di Luciano Salce appare ancora poco messa a fuoco la figura di questo intellettuale amante del teatro e della letteratura quanto della farsa, e perfino dello sketch televisivo: un regista mai organico allo status quo, ferocemente anti-borghese, anarchico nel senso più puro e ampio del termine, e dunque inclassificabile. Il suo cinema racconta l’Italia con una precisione sardonica, senza mai rinunciare alla commedia, e alle sue infinite deformazioni.

Il 28 dicembre 1982, su «Stampa Sera» Laura Gabbiano conduce una breve inchiesta dal titolo Viva o morta la «Commedia all’italiana»?, articolata attraverso tre interviste ad altrettanti autori del cinema italiano: insieme a Mario Monicelli (“La commedia non l’hanno inventata i Germi, i Risi, i Monicelli, e i Salce, risale al Trecento di Boccaccio, alla Mandragola, è la nostra tradizione: è un modo di ridere che non sanno fare i francesi, gli inglesi o gli americani”) e Dino Risi (“Oggi la tv è la grande madre del cinema. In tv vediamo autori come Fassbinder, Fellini e altri grandi nomi. Io stesso sto girando «La vita continua», un film di autore che non andrebbe bene per il pubblico delle sale cinematografiche”), la giornalista interpella anche Luciano Salce. Ed è proprio il regista romano ma di origini bergamasche, venete, e pesaresi, a utilizzare le parole più forti, e meno concilianti: sull’esistenza della commedia all’italiana ad esempio sentenzia “Come no. Adesso c’è degenerazione, ne abbiamo degli esempi luminosi. Purtroppo autori come Festa Campanile, Castellano e Pipolo, stanno facendo delle commedie fuori dalla realtà, mentre la commedia all’italiana di prima era una trasformazione del nuovo realismo”. Gabbiano incalza, chiedendo perché succeda questo e la risposta è diretta: “Perché l’apparato produttivo e distributivo del cinema italiano pensa solo a incassare e non vuole rischiare”. La frustrazione nel corso dello scambio di battute non è mai mascherata, così Salce si sfoga contro il sistema produttivo (“D’altra parte una rivoluzione c’è stata. Il regista oggi conta meno, la macchietta che prima era in serie B oggi è passata in A”), e amaramente constata “Non ci sono segnali positivi, ma può darsi che il cinema continui a macinare un po’ di soldi. D’altra parte la tv rovescia a valanghe ogni sera dei buoni film”. Sempre sulle pagine di «Stampa Sera», un paio di anni prima (il 10 novembre 1980), Salce aveva avuto modo di commentare la concorrenza non troppo leale del piccolo schermo nei confronti del cinema, lamentando “L’assoluta mancanza di una regolamentazione, il che fa si che le emittenti libere possano in pratica rubare migliaia di spettatori al cinema. Dare diciotto film al giorno è troppo facile, e darli a bassissimo costo non dovrebbe essere lecito. Chiedere una legge in proposito non mi sembra che sia fare del protezionismo, quanto invece cercare di difendere il lavoro di moltissimi. […] [La RAI] Fa concorrenza alle private giungendo a programmare quasi un film al giorno, soprattutto pellicole straniere, dimenticando un certo fair play che aveva instaurato negli scorsi anni con le case cinematografiche. Per essere nel giusto la Rai dovrebbe impegnarsi a investire il cinquanta per cento dei suoi introiti direttamente nella produzione di film. Oppure potrebbe lasciar stare il cinema e creare serie di telefilm. Non lo ha mai fatto”.
È divertente però annotare come questa dichiarazione sia resa in occasione del lancio mediatico di una trasmissione che andava in onda settimanalmente su una trentina di canali privati e che vedeva Luciano Salce in veste di conduttore nel presentare quasi duecento film del catalogo Rizzoli. Era dunque lo stesso Salce a contribuire all’invasione di film in televisione che concorrevano – a detta del regista – a far disamorare il pubblico dalla visione sul grande schermo. Tra i film selezionati per la programmazione televisiva, tra l’altro, tre erano diretti da Salce: Fantozzi, Il secondo tragico Fantozzi, e L’anatra all’arancia.

Chissà in quanti ricordano oggi questo programma televisivo (o il coevo Il diavolo, che nel 1979 andò in onda su Telealtomilanese, sempre del gruppo Rizzoli e condotto dal regista) e hanno memoria, in realtà, dello stesso Salce, nel giorno in cui ricorre il centenario della sua nascita. L’anniversario cade proprio quando il popolo italiano è chiamato alle urne per rinnovare l’arco parlamentare, e la concomitanza ingenera un autentico sorriso visto che Colpo di Stato è uno dei pochissimi film italiani ad avere avuto il coraggio di mettere in scena le elezioni politiche, e probabilmente l’unico ad aver costruito l’intera narrazione intorno a esse. È improbabile che una figura di intellettuale come Salce – statura che gli è stata più volte negata nel corso della vita – si sarebbe trovata a suo agio nell’attuale scenario politico, ma non è questa l’occasione per approfondire un simile dettaglio. Dopotutto Salce è sempre stato un reietto, guardato con estrema diffidenza dal sistema politico, fosse esso quello dell’apparato governativo o dell’opposizione comunista, o ancor più ovviamente della destra (post?) fascista. Da questo punto di vista Colpo di Stato diventa un’opera tanto emblematica quanto esiziale, dato che la sua realizzazione pose Salce ancor più fuori dallo “schema” produttivo canonico. Se infatti prima di questo passaggio-chiave nella sua filmografia (quindicesimo lungometraggio su trentadue diretti nell’arco di trentacinque anni) la critica aveva trovato in qualunquista l’aggettivo attraverso il quale leggere l’opera di Salce, dopo Colpo di Stato lo si guardò con ancora maggior sospetto, nonostante alcuni successi inequivocabili – ovviamente il dittico dedicato all’ingegner Ugo Fantozzi, tanto per portare qualche esempio pratico. Anarchico, impossibile da etichettare e del tutto distante dal gusto comune, anche per l’interpretazione data al concetto di commedia, Salce è stato un regista riottoso, del tutto distante dalla morale cattolica nonostante una formazione scolastica interamente passata nei collegi gesuiti – il collegio di Mondragone a Monte Porzio Catone, ora centro congressi di proprietà dell’Università di Tor Vergata –, ma anche critico nei confronti della figura canonica dell’intellettuale, e della sua veste pedagogica. Si veda in tal senso la costruzione dialettica de Il federale, che all’epoca venne accusato di superficialità ma in realtà contribuì a distaccare con sempre maggior forza il “popolino” dall’idea – ancora diffusa – di un fascismo buono, che aveva semplicemente sbagliato ad appoggiare l’esercito tedesco, e che nella costruzione del personaggio dell’intellettuale antifascista Bonafé (interpretato da un maiuscolo Georges Wilson, al primo film italiano della sua carriera – arriveranno poi i lavori con Franco Brusati, Nanni Loy, Damiano Damiani, Vittorio De Sica, Luchino Visconti, Francesco Rosi, Lucio Fulci, Florestano Vancini, Fabio Carpi, Alberto Lattuada, Gianni Toti, Nino Manfredi, Francesco Massaro) non lesina critiche velate a un illuminismo dell’intelletto incapace però di comprendere davvero la società, le classi subalterne, le esigenze della massa.

In fin dei conti il cinema di Salce, in una forma che non ha avuto mai timore di muoversi in territori “proibiti”, quelli in cui la commedia si intride di farsa e dove la pochade dà del tu alla boutade, è sempre stato soprattutto fieramente anti-borghese. Con il ghigno che Salce esibiva anche in scena, grazie a quella mascella sfondata dai nazisti per estrargli i denti d’oro in modo selvaggio mentre era nel campo di lavoro Stalag VII-A, in bassa Baviera (fuggì dal campo ma venne tradito da italiani a Innsbruck e internato nello Stalag XVIII-C vicino a Salisburgo), il suo cinema ha messo alla berlina i vizi di una borghesia resa opulenta dal boom economico ma in realtà arida, priva di contenuti e ancor più priva di umanità. È così già nell’esordio italiano Le pillole di Ercole (le prime regie di Salce erano state in Brasile, dove si era trasferito nei primissimi anni Cinquanta: Uma Pulga na Balança e Floradas na serra, a cui in pochi prestano di solito attenzione ma che rappresentano in realtà il primo tentativo di mescolare i diversi piani della commedia, espediente che diventerà una costante nel cinema di Salce), sonora presa in giro dell’ambiente borghese medico e del vincolo matrimoniale, ma l’eco si fa persistente soprattutto ne La cuccagna (1962) che in qualche modo già anticipa – ma in modo più surreale e meno tragico – le riflessioni di Antonio Pietrangeli in Io la conoscevo bene, e ancor più ne La voglia matta e Le ore dell’amore (rispettivamente del 1962 e del 1963) dove il discorso sul boom come oppio dei popoli, e illusoria panacea di tutti i mali esplode con un sarcasmo spassoso ma in ultima misura umbratile, e beffardo. Intellettuale fuori dagli schemi precostituiti, più amante del teatro che del cinema (dalla drammaturgia di Rafael Azcona e Luis Berlanga trae ispirazione per il sulfureo Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno, senza dubbio tra le sue opere più irriverenti e disturbanti), appassionato di letteratura e di musica, al lavoro in tutti i mezzi espressivi della messa in scena, Salce non è però un moralizzatore, perché come già affermato in precedenza non ha su di sé le stimmate del pedagogo. Il suo cinema non ha intenzione di svolgere una funzione maieutica, ma di pervertire l’ovvio, di destabilizzare lo status quo, di ridicolizzare l’incedere placido di una società normalizzata, deprivata del desiderio e dunque del corpo e dello sguardo. Anche per questa riflessione i suoi due film dedicati a Fantozzi rappresentano l’apice della saga, perché nessun altro regista – men che mai Neri Parenti, che stringerà le redini dei capitoli successivi – saprà cogliere così in profondità l’indicibile mediocrità del vivere non solo del complessato e reprobo ragioniere, ma dell’intera società nella quale si muove, e che è nel suo complesso priva di qualità.

Una speculazione che Salce innerva in ogni film, da Ti ho sposata per allegria (tratta dalla commedia teatrale di Natalia Ginzburg) a Rag. Arturo De Fanti, bancario precario, da Il sindacalista a La presidentessa. Coltissimo cinema nazional-popolare, irriconciliabile e sardonico, che ha il coraggio di sfondare la parete del demenziale e mostrarne il volto realista, del tutto riscontrabile nella verità quotidiana: l’apice da questo punto di vista, oltre ai due Fantozzi e a Colpo di Stato, lo raggiungeranno Il… Belpaese, che quasi sembra mettere in immagini le pagine di Operai e capitale di Mario Tronti o Proletari e Stato di Toni Negri, e Vieni avanti cretino, dove la struttura episodica serve a fustigare il prurigine borghese e liberare definitivamente il corpo anarchico, la vis incontrollabile del sottoproletario, di chi per scelta o per necessità non può far parte della classe media, del mondo perbene. A proposito di paradossi, è sorprendente come si sia potuta perpetuare nel tempo la visione di Luciano Salce come quella di un fascista uscito indenne dalla Xª Mas e dall’epoca repubblichina: una fola che uscì ringalluzzita dalle pagine di Intellettuali sotto due bandiere di Nino Tripodi (1978) all’epoca direttore de «Il secolo d’Italia» e deputato nelle fila del Movimento Sociale Italiano, e che dovette attendere un trentennio prima di essere adeguatamente smontata dal figlio del regista, Emanuele. Una leggenda popolare che testimonia una volta di più quanto Salce sia stato un intellettuale irregolare, non organico al Sistema, del tutto distante da un apparentamento in tutto e per tutto ideologico. Da un punto di vista cinematografico non ci si deve stupire della mancanza di un’iconografia chiara di riferimento, o di un apparato visivo strutturato, rigoroso, in qualche misura precostituito; non apparterrebbe tale approccio a un regista volutamente che si è volutamente spogliato della dottrina, di un sistema fideistico di visione del mondo. Anche se Quelli del casco, un anno prima della morte (avvenuta il 17 dicembre 1989), chiude con mestizia la trentennale carriera registica, è Vediamoci chiaro l’ultimo film davvero salciano, in cui per una volta l’elemento dello sguardo diventa centrale, ma viene subito castrato dalla cecità – dapprima reale, poi fittizia – del personaggio interpretato da Johnny Dorelli: non ha senso vedere, se non si vuole capire, sembra suggerire anche sul terminar della carriera Luciano Salce, uno che è stato tanto visto ma ben poco capito, e che nell’anno dei molti centenari del cinema italiano (Pier Paolo Pasolini, Vittorio Gassman, Francesco Rosi, Ugo Tognazzi, Mauro Bolognini, Carlo Lizzani, Damiano Damiani, Ciccio Ingrassia, Adolfo Celi, Franco Brusati) rischia di essere una volta di più messo nell’angolo, quando invece il suo ghigno potrebbe ancora raccontare l’Italia di oggi, quel belpaese che si appresta a rinnovare il parlamento. Sarebbe opportuno, cattivo pensiero, proiettare nei seggi La pecora nera, con Gassman nel doppio ruolo dell’irreprensibile onorevole Mario Agasti e del suo fratello gemello Filippo, corruttore ai massimi livelli.

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