January

Pochi mesi dopo la vittoria a Tribeca, January di Viesturs Kairišs trionfa anche alla 17ma Festa del Cinema di Roma, portando in Lettonia i premi come miglior film e miglior regia del concorso Progressive Cinema. Un’immersione metacinematografica e materica nel gennaio 1991 che fece la Storia repubblicana del Paese, filtrata attraverso l’occhio meccanico e le tenere incertezze giovanili di un aspirante regista: solo lo sguardo analogico della macchina da presa e le imperfezioni della pellicola potranno fargli realmente mettere a fuoco ciò che avviene fra le barricate, nella testa, nel cuore, nel mondo, e poi sullo schermo.

Il ragazzo con la macchina da presa

È il gennaio del 1991 e Jazis, appassionato del cinema di Andrej Tarkovskij, Ingmar Bergman e Jim Jarmusch, aspira a diventare un regista. Trova il suo primo amore giovanile in Anna, che condivide le medesime passioni e allo stesso modo sogna il successo artistico, tanto che sarà lei a ottenere il lavoro come assistente del regista Juris Podnieks. Tuttavia, il loro amore e la loro vita spensierata si bloccano quando la minaccia sovietica diventa una triste realtà, e la loro nazione diventa un feroce campo di battaglia di sottomissione contro l’indipendenza. [sinossi]

«Mi insegni ad alta voce che tipo di stendardo portare – i tuoi slogan mi esplodono in testa, questa barriera non è solo tempo» cantava già nel 1988 Ritvars Dižkačs con i suoi Aurora, leggendario gruppo post-punk nato in Lettonia sulla scia musicale (e politica) alternativa sovietica dei Kino di Victor Coj. Del resto è una scelta ben precisa, quella di inserire a più riprese Barjera all’interno della colonna sonora di January, con la sua chiosa «Perché mi trattieni quando la scelta è nelle mie mani? La tua paura è assolutamente noiosa!». Per quanto di certo gli autori della canzone non potessero immaginare che la loro “barriera”, passando per la caduta del Muro, per le indipendenze degli Stati Baltici non riconosciute dall’URSS e dalla controffensiva sovietica, nel giro di tre anni sarebbe diventata una vera e propria barricata con buona parte della cittadinanza pronta a scendere in strada a difendere la Repubblica, Viesturs Kairišs usa le loro parole quasi come un inno, generazionale, di ribellione, di quel momento storico fondamentale che in pochi giorni avrebbe deciso le sorti del Paese. Un invito a non avere paura, in un film fieramente indipendentista e repubblicano, disincantato e malinconico ma al contempo ancora sognante, e soprattutto ipercinefilo e dolcemente innamorato dell’emulsione, nel quale il cinquantunenne regista cinematografico e teatrale torna ai suoi diciannove anni, alla sua intima passione per il cinema, ai suoi primi esperimenti di messinscena e a chissà quanti altri dettagli autobiografici, innestandoli – un po’ come lo Steven Spielberg di The Fabelmans o il James Gray di Armageddon Time, tanto per rimanere agli esempi più recenti, ma sono sempre più numerosi i ritorni degli autori agli anni della propria formazione – nel coming of age umano e cinematografico dell’alter ego Jazis. Un giovane aspirante regista che solo attraverso l’occhio meccanico della macchina da presa e i formati rigorosamente analogici dal Super8 al 16mm, fino al nastro magnetico e all’interlacciato delle videocamere Beta, riuscirà realmente a vedere attraverso le indecisioni e le contraddizioni della sua adolescenza e della società inquadrata dal suo obiettivo, a capire realmente la realtà che stava cambiando e i propri sentimenti, a scoprirsi uomo maturo e cineasta capace di guardare, a risolvere, o per lo meno a inquadrare, gli inevitabili conflitti identitari di un Paese sospeso fra il passato e il futuro, e nel frattempo minacciato dai carri armati. Come se l’atto stesso di filmare e riprodurre fosse un vero e proprio filtro esistenziale, e come se l’immagine fosse l’unica possibile testimone oculare, l’unico modo di «avvicinarsi il più possibile» per comprendere realmente il senso di ciò che si sta guardando. La giusta distanza, forse. Di certo, una messa a fuoco.

Non è un caso in tal senso che January, assoluto trionfatore alla diciassettesima e nuovamente competitiva Festa del Cinema di Roma dalla quale torna con il doppio premio come miglior film e miglior regia dopo aver già vinto, lo scorso giugno, come Miglior Film Internazionale al Tribeca Film Festival, si apra con le riprese clandestine della sala stampa locale occupata dalla polizia segreta russa perché nessuno possa più riferire notizie sull’indipendenza della Lettonia. Un evento storico che il giovane e ancora acerbo protagonista, nel montaggio in macchina del suo Super8, inframezza del tutto fuori contesto a vedute nebulose di dichiarata ispirazione tarkovskiana. Come a dire che giocare al cinema, anche se ancora pretenziosi e privi di bussola, è già intrinsecamente un atto politico, un tentativo di capire la realtà, una tappa di avvicinamento. È per questo che, in una babele di formati e in un continuo ondeggiare dei punti di vista fra soggettivo e oggettivo, nello sguardo a passo ridotto della (meta)cinepresa non potrà che entrare progressivamente anche l’atto di filmare, il corpo macchina, la mano di chi la manovra, il volto di Jazis concentrato dietro al mirino. Come se il suo sguardo cercasse un’ideale soluzione di continuità fra campi e controcampi, e poi ancora fra le ricostruzioni e i filmati d’archivio, perché è solo nella grana viva della pellicola, fra la realtà, la pura finzione e il sogno di fare cinema, che il vero ritrova fisicità e diventa finalmente intelligibile, che le immagini si scoprono talmente pregne di senso da poter mettere ordine nella Storia, nell’adolescenza, nelle ellissi narrative, nelle intuizioni. Nell’identità. Dalla passione per Jim Jarmusch ed Ingmar Bergman a quella per Werner Herzog e Věra Chytilová, trascinato dal rutilare degli eventi di una manciata di giorni che significa una vita, intimamente punk proprio come il videoclip da realizzare tutti insieme e che diventerà una prima rottura, o come le musiche diegetiche che repentine deflagrano sullo schermo ad accelerare i ritmi nelle batterie new wave. Dall’ingresso alla scuola di cinema all’amore esplosivo per Anna, passando dall’imbranata tenerezza della prima volta sotto le lenzuola. Dalla stupida gelosia di lui quando sarà lei a ottenere il posto di assistente di Juris Podnieks, straordinario documentarista al quale il film è dedicato, che nei giorni delle barricate a Riga fu ferito e perse due collaboratori fra i proiettili dell’esercito, al fulmineo precipitare della situazione politica, con i carri armati alle porte, la chiamata dell’esercito sovietico (con tanto di capelli tagliati in omaggio all’incipit di Full Metal Jacket) e il contemporaneo, opposto bisogno di continuare a filmare la resistenza della Lettonia.

Basta meno di un mese a Jazis per crescere, impressionare pellicola e cassette, viaggiare per amore ed essere clamorosamente frainteso, scoprire e scoprirsi, essere respinto e respingere, sbagliare e acquisire sempre maggiore coscienza. Un gennaio 1991 vissuto fra una madre convinta indipendentista e un padre ancora iscritto al Partito Comunista, fra il sogno della messinscena dilatata d’autore e l’urgenza del cinema del reale, fra il 16mm della fotografia principale e le perforazioni dell’8 che con gli inserti in Video ne cambiano temporaneamente la pasta. Senza mai uscire dai limiti del 4/3, il formato nativo tanto delle pellicole quanto delle prime videocamere, forse l’unico formato possibile per chi fatica a trovare il proprio orizzonte, e di certo il primigenio aspect ratio del cinema. Viesturs Kairišs lo omaggia apertamente, nella sua materia, nelle sue imperfezioni, nei suoi maestri apertamente citati, nei repentini cambi di umore (e di stile) fra le feste danzanti e le manganellate dell’esercito, fra le inquadrature di Jazis e la sempre maggiore oggettività del suo inquadrare, fra i dilemmi identitari, personali come di un popolo costretto definitivamente a scegliere, e l’avanzare sempre più bruciante del conflitto. C’è la prima cotta e c’è la ribellione di una comunità oppressa, c’è lo scambio clandestino di VHS e c’è la leva militare per il nemico, c’è la Storia universale che entra di prepotenza nella storia personale e c’è l’adolescenza che deve fare i conti con l’età adulta. Ci sono la famiglia e gli amici, ci sono le delusioni e le nuove ragioni di vita, ci sono le fughe e i ritorni, ci sono i tubi catodici e le barricate, e c’è un incontenibile sentimento di libertà, non necessariamente antirusso (anche se, nella situazione geopolitica attuale, si tratta un punto facilmente sovrainterpretabile sovrapponendo la Lettonia di ieri all’Ucraina di oggi), ma di certo disilluso e orgogliosamente antimperialista. Ma soprattutto c’è un (fare) cinema come catarsi, come tentativo di comprensione, come necessità di crescere. Come fondamentale alleato per catturare e restituire quello che gli occhi a volte non vedono. Tanto che poco importa che la struttura narrativa di January sia tutto sommato prevedibile, che fra le ellissi narrative e nel mosaico di intuizioni formali qualche soluzione possa apparire improvvisa, derivativa o ingarbugliata, o ancora che nella sezione melò fra Jazis e Anna ci sia a volte qualcosa che appare slegato o eccessivo: è proprio la confusione il punto da cui partire, e da cui il cinema può fare realmente scoprire se stessi e il mondo circostante. Quello che conta è documentare, guardare per filmare, raccontare per capire. Produrre costantemente immagini, perché le immagini sono semplicemente un’esigenza. Senza (più) paura, perché la paura, si sa, è l’unica cosa «assolutamente noiosa».

Info
January sul sito della Festa del Cinema.

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