Creed III

Creed III

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La saga di Adonis Creed, giunta al suo terzo capitolo, prosegue riproponendo temi e personaggi desunti dalla saga madre di Rocky senza scossoni ma anche senza cedere terreno in termini di impatto spettacolare. In Creed III l’unica domanda che sorge spontanea è se tale saga rimarrà nell’immaginario collettivo così come quella di Rocky, o se ne rimarrà sempre e solo un sottoprodotto, per quanto aggiornato e ben realizzato.

È il cuore che è importante

Divenuto ormai ricco e famoso, Adonis Creed si è ritirato dal pugilato già da tre anni, vive con sua moglie in una enorme villa poco fuori Los Angeles e divide il suo tempo tra la famiglia e la palestra dove si dedica all’allenamento di un nuovo campione in carica, Felix Chavez, rimasto però a corto di partner per allenarsi. Proprio allora riemerge dal passato di Creed Damian “Dame” Anderson, un suo compagno e amico ai tempi in cui viveva in una casa-famiglia. Uscito dal carcere dopo quasi vent’anni, il desiderio di Anderson, un tempo giovane promessa della boxe, è ora quello di recuperare il tempo perduto. E così Creed decide di accoglierlo nella sua palestra. Ma i piani di Anderson vanno ben oltre quelli di fare da sparring partner a Chavez… [sinossi]

È il cuore che è importante, non i muscoli. Questo l’insegnamento – semplice quanto efficace – trasmesso dal Mickey di Burgess Meredith a Rocky e che ne attraversa tutta la saga. Ed è questo stesso insegnamento che Rocky trasmetteva a Creed, allenandolo nei primi due capitoli. Il cuore, ovvero il coraggio, che con cuore condivide la stessa radice. Sapere per cosa si combatte dà coraggio. La vittoria o la sconfitta dipendono da questo. E il cuore, il coraggio, rendono un pugile non solo vincente contro ogni pronostico, ma anche degno di essere ricordato. Se il primo Creed (2015) ricalcava il primo Rocky (1976), con l’eroe venuto dalla strada in cerca di un posto al sole, di un riconoscimento del proprio nome, della propria identità, Creed II (2018) si riallacciava al quarto della saga capostipite (1985) – il più famigerato, come ben noto, ma anche uno dei più amati dal pubblico ancora oggi – mettendo in campo una sorta di tragedia greca di vendette ed espiazioni, in cui venivano infine al pettine i nodi padre-figlio, laddove i padri erano defunti ma ingombranti (Apollo Creed) o viceversa vivi ma sconfitti (Ivan Drago). Creed III affronta invece il tema, anche questo non nuovo, della nemesi, dell’avversario a sua volta venuto dalla strada, ma che si presenta come un doppelgänger, un doppio oscuro e malvagio: “Diamond” Dame Anderson (Jonathan Majors). Il quale, selvaggio e incattivito, irrispettoso di ogni regola o morale, si presenta nella vita del Nostro proprio quando questi, ormai ricco e famoso, senza più la “fame” di un tempo (altro ingrediente fondamentale delle due saghe e della mitologia dei film pugilistici in generale), è divenuto soft, si è indebolito, ed è ora una preda virtualmente facile per lo sfidante. Un tema che si è già visto incarnato nel Mr. T di Rocky III (1982) nonché – per la parte riguardante l’ingratitudine del “parvenu” e l’abbaglio preso dal protagonista – nel Tommy Gunn di Rocky V (1990). Perciò, se Creed III è anche il primo della trilogia spin-off a non vedere più la presenza di Sylvester Stallone se non come co-produttore (e non più come interprete e, nel caso del secondo capitolo, anche co-sceneggiatore), è anche vero che quello che può sembrare, sulla carta, un tentativo di emancipazione, di camminare con le proprie gambe e tirare i propri pugni cercando di uscire dall’ombra ingombrante del padre (Rocky Balboa qui non viene mai nominato), si rivela una volta di più una rielaborazione di temi e tipologie di personaggi già viste in passato. E questo naturalmente non vale solo per gli aspetti principali del racconto, ma anche per quelli riguardanti la sfera affettiva e famigliare del protagonista, oltre che quella personale ed emotiva. Il ruolo di Bianca Taylor (Tessa Thompson) è altrettanto centrale di quello di Adriana. Una donna che rappresenta il punto fermo, il ritorno a casa, il motivo per rialzarsi quando si va al tappeto. Ma che, al contrario di Adriana, ha anche lei le sue aspirazioni professionali (è cantante e musicista) e i suoi problemi (sta diventando sorda e perciò la vediamo qui passare al ruolo di compositrice e produttrice per conto terzi).

Si lasci dunque perdere l’originalità, dal momento che oramai dovrebbe essere chiaro come quella incentrata su Creed sia solo una rilettura, un aggiornamento e in definitiva un reboot della saga di Rocky Balboa. Sul piano puramente spettacolare la trilogia (sempre che si chiuda con quest’ultimo film) funziona e i capitoli si succedono senza grandi scossoni, ma anche senza importanti discontinuità sul piano qualitativo. Creed III vede in cabina di regia lo stesso interprete principale, Michael B. Jordan, come fece Stallone da Rocky II in poi (con la sola eccezione del quinto). Coadiuvato dallo stesso direttore della fotografia del film precedente, Kramer Morgenthau, e con alle spalle produttori veterani come Irwin Winkler e Robert Chartoff, oltre allo stesso Stallone, Jordan porta a casa un film che non deluderà gli appassionati e che, nonostante alcune lungaggini relative all’aspetto famigliare, guadagna indubbiamente punti in termini di complessità del protagonista, che fino a ora era sembrato un po’ scialbo e incapace di trovare una propria identità: un aspetto oltretutto tematizzato nelle prime due pellicole, nelle quali rimaneva sempre all’ombra del padre, Apollo Creed. Ma anche e soprattutto all’ombra della saga madre, come si è già scritto e ribadito. Ed è in particolare nell’indovinato sottofinale, un momento di dialogo a due che avviene fuori dal ring, che viene fuori il coraggio più grande, non solo per un pugile, ma per un uomo: quello di guardarsi dentro, guardare (e vedere veramente) l’altro e finalmente comprenderlo, nel senso ampliato di contenerlo in sé, abbracciarlo. Accoglierlo e ricomprenderlo in sé, in qualche modo, ricomponendo così un antico trauma. Perché il vero nemico, come Mickey e Rocky insegnavano, è quello davanti allo specchio. E l’altro, l’avversario, è solo l’ostacolo che sta in mezzo per arrivare a (comprendere) se stessi.

E si torna così al cuore. In Creed II a un certo punto qualcuno afferma che nella storia del pugilato ci saranno stati una settantina di campioni. Ma di quanti la gente si ricorda? Quanti hanno lasciato il loro marchio a lungo termine sull’immaginario collettivo? Tre o quattro al massimo, è la risposta. Lo stesso vale per i pugili del grande schermo. Rocky (1976), il primo, il capostipite, scritto dallo stesso Stallone allora trentenne, si è imposto nell’immaginario collettivo proprio per il suo cuore. I seguiti decisamente meno, ma continuavano a vivere del carisma dell’attore/autore. Capitoli imperfetti, spesso iper violenti ed esasperati, figli del proprio tempo, ma che si tenevano in piedi e mandavano al tappeto i botteghini proprio per questa presenza così fisica e carismatica. I film della saga di Creed sono per certi versi realizzati “meglio”, in termini di qualità standard complessiva, scrittura e ritmo, fuori e dentro il ring, e anche i combattimenti sembrano tecnicamente più corretti o comunque più verosimili di un tempo. E riportano un notevole successo di pubblico e, in parte, anche di critica. Ma possiedono lo stesso carisma, l’anima, il cuore? Se ne conserverà memoria? Oppure rimarranno solo dei prodotti facsimile, delle appendici ben curate della saga madre? Che è poi una domanda da rivolgere a gran parte dei franchise degli ultimi decenni, sempre più incapaci di una propria mitopoiesi e perciò dediti alla pratica della riproposizione a oltranza delle fabulae cinematografiche del passato (è il caso della saga Disney di Star Wars ma anche di diverse serie televisive di successo).

La domanda per il momento rimane aperta. Così come il finale del film, che sembra lanciare già una nuova sfida proponendo (forse) un nuovo possibile e futuro erede di Creed, oramai ritiratosi definitivamente (?) dal ring: una ragazza nera e sordomuta con i guantoni e un nome da difendere. Nel caso che ciò avvenga, la speranza è solo che sia più fortunata di Maggie Fitzgerald di Million Dollar Baby (2004): lei sì, uno di quei pochi pugili cinematografici di cui si conserva viva memoria. E grazie a un solo, unico e irripetibile film.

Info
Il trailer di Creed III.

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