Banel & Adama

Banel & Adama

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Banel & Adama, esordio alla regia della senegalese nata e cresciuta in Francia Ramata-Toulaye Sy, ricorda in fondo un po’ quei souvenir che i turisti portano a casa da viaggi lontani. Un film in cui la superficie prevale su ogni possibile sfaccettatura e il testo filmico è decisamente troppo gracile per sostenere l’ambizione del mito. In concorso al Festival di Cannes.

Un mito fragile

Banel e Adama sono due giovanissimi sposi e vivono in un villaggio del Senegal. La ragazza, che non vuole avere figli, rifiuta tutte le abitudini tramandate della comunità da cui infatti vuole andarsene; il ragazzo, però, per discendenza deve diventare capo-villaggio. Non accetterà, interrompendo una secolare tradizione… [sinossi]

Presentato come “film senegalese”, Banel et Adama è diretto da una regista di origine africana, Ramata-Toulaye Sy, nata e cresciuta in Francia, Paese che – ovviamente – coproduce assieme a Senegal e Mali questo esordio. Un lavoro che in altre (e forse migliori) edizioni avrebbe trovato la propria corretta collocazione nella sezione Un Certain Regard mentre a Cannes 76 è stato selezionato per il Concorso. Sembra però un mediometraggio tirato per le lunghe Banel & Adama, che anticipa completamente la propria stessa storia nei primi minuti quando il giovane Adama raccona alla sua sposa, Banel, un mito tradizionale del villaggio in cui vivono e che parla dell’allontanamento dell’uomo dalle leggi della natura, la separazione dal creato con cui la nostra specie non è più in armonia. La fine del tempo edenico porta sciagure e tragedie, ossia conduce al “tempo peggiore” come dice Adama. Questo mito è esattamente ciò che vedremo nel film, anche se questa volta la caduta non sarà rispetto alla consonanza con la creazione divina bensì sarà conseguenza della rottura con la tradizione culturale, con le radici della comunità, che porta alla fine di un’antropologia. Fautrice principale di questa separazione è in particolare Banel dunque il femminile. Anche il Corano, ovviamente, ha una propria versione e interpretazione di Adamo ed Eva: sebbene l’incrinatura originaria ci sia già stata, come appunto viene detto nell’incipit, il nome stesso del protagonista maschile richiama la vicenda della cacciata dal Paradiso mentre quello della femmina indica che siamo di fronte a un altro tipo di calamità. Non è poi un caso che i nomi dei due protagonisti costituiscano il titolo e che, nel film, Banel scriva quasi ossessivamente il proprio nome e quello dello sposo: il problema che conduce alla rovina qui non è la violazione della Legge, ma la volontà di essere individui e interrompere la ritualità in cui si è vissuti da generazioni. Il nome, la singolarità, la differenza diventano portatori dell’Apocalisse.

Banel (Khady Mane) e Adama (Mamadou Diallo) sono tanto innamorati anche se il loro matrimonio è frutto esso stesso di una sventura: la ragazza, inizialmente, era infatti sposata con il fratello di Adama, che però è morto. I due, in seguito alla perdita, hanno potuto coronare il loro sentimento, da sempre presente ma “ostacolato” dalle precedenti nozze combinate. Il decesso del fratello maggiore comporta però anche il dovere, per Adama, di diventare il capo-villaggio del paesino del Senegal rurale in cui i due vivono. La giovane ha altri piani e si pone, fin da principio, in un dissidio assoluto rispetto alla collettività cui non vuole appartenere, da cui vuole isolarsi e che, in qualche misura, disprezza. Banel vuole andare a vivere col marito fuori dal villaggio, in un’abitazione che i due stanno costruendo in mezzo alle dune di terra e sabbia, perciò surrettiziamente impone ad Adama di non accettare di essere la guida del gruppo, che resta così senza acefalo. Queste scelte saranno foriere di catastrofi crescenti: arriverà la siccità, le mucche moriranno e si andrà di male in peggio in maniera inarrestabile. Il film è tutto qui e per un’ora e mezza non fa che ribadire questa esile traiettoria, un mito rivisitato per cui voler essere individui, unici, negando le arcaiche tradizioni diventa fonte di disastri immani. Se, da un certo punto di vista, la fine delle eterogeneità culturali è un tema globalmente rilevante e veramente tragico, la maniera in cui è raccontato il confitto tra individuo e collettivo in Banel & Adama risulta a ben vedere un po’ reazionario. Il film è infatti completamente apodittico e non c’è al suo interno alcun contraltare, alcuna dialettica che problematizzi il desiderio della protagonista di non essere come gli altri, che lei percepisce come anonimi e intercambiabili, destinati a portare le vacche al pascolo, pregare e dormire e ricominciare ogni mattina come fosse lo stesso interminabile giorno. La ragazza non è realmente religiosa, non rispetta le convenzioni, non vuole figli e si diverte a uccidere uccellini e vari animaletti con la fionda: la sua caratterizzazione è chiara ma in fondo impressionistica e le ragioni profonde circa la sua volontà di dirazzare non sono analizzate se non tenendo meramente conto che, solo grazie a una morte e alla fine di un matrimonio predeterminato e non voluto, il suo desiderio si è coronato. Nessun altro personaggio del resto ha ragioni particolari nel sostenere la conservazione delle consuetudini e il rispetto della religione musulmana. Tutto è assiomatico e il conflitto frontalmente sterile: prendere o lasciare. Banel & Adama non indaga ma si pone, appunto, come un mito su un’antropologia morente, scelta perfettamente legittima a patto però di sapere esprimere con il linguaggio del cinema la monoliticità misteriosa dell’arcaico con tutte le sue implicazioni che possono, ovviamente, essere molto potenti.

Ad “allungare il brodo” di quello che, veramente, potrebbe essere un film di 45 minuti, ci sono infatti il forzato lirismo di paesaggi e colori, la cura programmatica nel creare immagini belle e tutto l’armamentario possibile che rende il film esoticamente colonizzato, prodotto pianificato per finire a un festival, ineluttabilmente francese, che così può mettere anche la parola “Senegal” in cartellone. Banel & Adama ricorda in fondo un po’ quei souvenir che i turisti portano a casa da viaggi lontani. Peccato, perché qualcosa di interessante c’è e l’idea del film non è affatto sciocca, tutt’altro, ma la superficie prevale su ogni possibile sfaccettatura e il testo filmico è decisamente troppo gracile per sostenere l’ambizione del mito.

Info
Banel & Adama sul sito del Festival di Cannes.

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