Rossosperanza

Rossosperanza

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Dopo la presentazione in concorso al Festival di Locarno arriva in sala Rossosperanza, secondo lungometraggio per Annarita Zambrano; dopo il deludente e problematico Dopo la guerra la regista romana sorprende con un racconto grottesco, a tratti onirico, prossimo all’horror nel tracciare una radiografia della classe dominante italiana, e dei (pochi) figli ribelli che ha partorito.

Lotta nella classe

Zena, Marzia, Alfonso e Adriano, figli reietti di gente perbene, si incontrano nella costosa Villa Bianca dove le loro famiglie li hanno spediti per farli diventare “normali”. È il 1990, l’Italia che conta balla ancora. Ma una tigre, scappata da chissà dove, si aggira libera e affamata. C’è chi balla, chi ama, chi guarda. E c’è chi uccide. [sinossi]

Un disco che gira sul piatto può sempre essere scratchato, per vezzo estetico, per struttura evocativa di ciò che si sta suonando, o per mera ricerca del punto esatto da cui partire, o magari ri-partire. Rossosperanza principia su un disco rosso sangue che gira, e contiene la prima informazione saliente del film, vale a dire la sua collocazione temporale. La storia di ribellione, sangue, morte, devastazione, sogno/incubo che ha per protagonisti Zena, Marzia, Alfonso, e Adriano costringe lo spettatore a tornare indietro al 1990, anno a suo modo spartiacque: fine e inizio di un decennio, mette la parola fine sui blocchi contrapposti, dopo la caduta del Muro di Berlino, e apre al liberismo sfrenato, con la sbornia reaganiana che imporrà un nuovo diktat all’occidente non più preoccupato dai venti dell’est. È l’anno dei mondiali di calcio italiani, delle “notti magiche” che dietro il gol spaccacuore di Roberto Baggio alla Cecoslovacchia – di nuovo, il Patto Atlantico che affonda il Patto di Varsavia – nascondono abusi edilizi, follie amministrative e chi più ne ha più ne metta. Il 1990 è anche l’ultimo anno di insana purezza della società e della politica italiane, prima che il 1991 porti con sé il fascicolo aperto alla Procura di Milano da Antonio Di Pietro che darà il la alla stagione nota come «Mani pulite». È anche l’anno della Pantera, il movimento studentesco che infiammerà la lotta nelle facoltà universitarie dal sud al nord, e che prese il nome dall’avvistamento di una pantera non lontano dal centro di Roma, su via Nomentana, all’inizio del dicembre 1989. Anche Rossosperanza, non casualmente, inizia con un grande felino a spasso indisturbato per la campagna, nonostante i tentativi dei cacciatori di stanarlo e ucciderlo: è una tigre – in realtà la stessa pantera capitolina era una panthera tigris – che pare noncurante di tutto, ma sa come farsi rispettare staccando di netto un braccio a uno dei cacciatori e cibandosene. Nel frattempo i quattro succitati adolescenti (Zena, Marzia, Alfonso, e Adriano) trovano rifugio su una macchina di passaggio ma vengono ben presto espulsi dalla vettura per volontà di un autista irritato dal comportamento dei ragazzi, e forse anche un po’ inquietato da quegli sguardi terrei, quasi soprannaturali. Così, mentre le note celeberrime di Lullaby dei Cure si spandono nell’aria, i quattro si immergono proprio come la tigre nella notte.

L’incipit del secondo lungometraggio di Annarita Zambrano, con il suo stile sulfureo e magmatico – l’immagine spettrale di un cancello immerso nella nebbia rimanda a ipotesi gotiche, e in effetti il film striscia di follia delirante e omicida un racconto che ben si colloca tra le atmosfere terrificanti e gli eventi misteriosi tipici del romanzo nero –, produce un cortocircuito salvifico: si era lasciata la cinquantaduenne cineasta romana sulle sponde di un rinsecchito fiume sul quale scorrevano i detriti degli Anni di Piombo, mal gestiti e poco approfonditi nel suo esordio Dopo la guerra, e la si ritrova invece in splendida forma a tratteggiare la fisionomia di un’alta borghesia italiana orrorifica, ancora compiutamente fascista, attaccata ai valori distorti di una visione della famiglia e della vita reazionaria, asfittica, mortuaria. Sarabanda in cui il vitalismo giovanile viene mortificato dal funebre drappo della società al punto da trovare infine una risposta a dir poco totalizzante e dinamitarda, Rossosperanza è un racconto volutamente episodico, che puntella più che narrare l’adesione fraterna di quattro ragazzi che, considerati anormali dalle proprie famiglie (Zena ha avvelenato un alto prelato a dir poco laido; il muto Adriano ha staccato di netto con un morso il dito della matrigna che portava l’anello nuziale della sua madre biologica; Alfonso è un omosessuale; Marzia una ragazza disinibita che non tiene alle convenzioni), si ritrovano in tal Villa Bianca, costosa reclusione per i reietti rampolli dell’Italia bene. Ricorrendo allo scratch del vinile che tiene sempre con sé Zena il film riannoda i ricordi, e mostra le aberrazioni a dir poco sanguinolente compiute dai due ragazzi e dalle due ragazze, che nulla sono rispetto a quelle incistate della borghesia che li ha partoriti e poi rifiutati.

Ne viene fuori un’opera ellittica, che ondeggia tra la dimensione incubale e un grottesco surrealismo della crudeltà sempre più raro oramai nel cinema italiano ed europeo; arricchito sotto il profilo visionario dal raffinato lavoro fotografico di Laurent Brunet (tra le varie collaborazioni quella con Michel Gondry per Microbo & Gasolina), che rintraccia traiettorie da giallo all’italiana gestendo cromaticamente i colori primari e creando dunque un forte contrasto visivo, Rossosperanza è un grido di ribellione salvifico, che ghigna con beffarda posa di fronte alle distonie dell’Italia democratica – il vecchio nonno fascista che già nella bara crea disappunto perché la badante gli ha cucito sulla giacca il gagliardetto con il fascio littorio – ma non disdegna traiettorie umbratili, come quella che ha per protagonista Tommaso, il balbuziente fratello di Zena che vorrebbe essere accolto dal cugino che al contrario lo disdegna, e viene per questo spinto a sua volta alla rivolta. Rivolta che è catartica perché distruttiva, e che fa in qualche misura tornare in mente il celebre aforisma di Sergio Leone: «Quando ero giovane credevo in tre cose: il Marxismo, il potere redentore del cinema e la dinamite. Oggi credo solo nella dinamite». Crede nella dinamite, non intesa qui in senso letterale, anche Zambrano, che suggerisce come a fianco della lotta di classe sia necessario far germogliare anche la lotta nella classe, unica possibilità di redenzione per una borghesia opulenta, cattolica, sgradevole sotto ogni punto di vista, e immortale – nonostante il nonno nella bara: non a caso alla festa a tema della madre di Marzia tutti si presentano come degli zombi. In attesa della rivoluzione il disco sul piatto continua a girare, e la tigre si aggira nel buio della notte. Pronta a ghermire coloro che non sognano, parafrasando Garcia Lorca.

Info
Rossosperanza sul sito di Locarno.

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