The Sun Will Rise

The Sun Will Rise

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The Sun Will Rise (Aftab mishavad è il titolo originale) del regista iraniano Ayat Najafi ha aperto fuori competizione la ventesima edizione delle Giornate degli Autori di Venezia interrogando il pubblico sul ruolo dell’arte nel mezzo di una rivoluzione, e sul concetto di cultura e della sua produzione.

Leggere Lisistrata a Teheran

Dopo l’uccisione della giovane Mahsa Jina Amini, alla fine del 2022 una compagnia teatrale di Teheran decide di portare in scena la commedia “Lisistrata” di Aristofane. Il gruppo si chiude in una sala prove mentre fuori la popolazione scende in strada a protestare e in Iran c’è aria di rivoluzione… [sinossi]

Che ruolo ha l’arte quando per strada c’è una rivolta, forse una rivouzione? La produzione di “cultura” e la condivisione della creatività militante sono sufficienti a loro stesse o senza l’atto e la pratica politica diretta diventano, anche loro malgrado, inerti e inadeguate? Sono queste le domande che pone e si pone il regista iraniano Ayat Najafi, che con il suo The Sun Will Rise (Aftab mishavad è il titolo originale) ha aperto fuori competizione la ventesima edizione delle Giornate degli Autori di Venezia. A monte di questo lavoro stratificato c’è una decisione stilistica molto forte: gli attori non vengono mai inquadrati in viso dunque nel film non ci sono volti. Da una parte la scelta risponde alla necessità di non rivelare le identità delle persone che hanno preso parte alle riprese clandestine, dall’altra l’assenza dei visi risponde alla necessità di un collettivo, di dirigersi verso la comunità. Se il corpo è protagonista assoluto delle riprese, si tratta infatti di un corpo senza individuazione definita, non di un organismo – la frammentazione è un altro tratto stilistico dominante – ma di una serie di singolarità non ancora organizzate. Si tratta di scelte incisive, pregnanti, che rendono il film peculiare e decisamente lontano dalla prassi.

Dopo l’uccisione della giovane Mahsa Jina Amini, l’Iran è in fiamme. Una compagnia teatrale si chiude in una sala prove per portare in scena Lisistrata, la commedia in cui Aristofane immaginava che per porre fine alla Guerra del Peloponneso le donne ateniesi stabilissero uno sciopero del sesso fino a quando i maschi non avessero raggiunto la pace. La centralità del femminile nell’opera del V secolo avanti Cristo ha una ovvia assonanza con gli eventi di fine 2022 e il gruppo inizia la propria rilettura del classico greco, ma i dubbi sul senso di inscenare quando si potrebbe agire iniziano a serpeggiare in fretta nel collettivo che, una sera, accoglie anche alcune persone in fuga dai lacrimogeni lanciati dalla Polizia. La dialettica tra “esterno” e “interno”, che corrisponde a quella tra realtà politica e isolamento artistico, diventa tema di riflessione per la compagnia la cui regista è una donna: forse non basta far dialogare Aristofane con la cronaca iraniana portando nel testo abusi e violenze contemporanee. Il “circolo ermeneutico” non colma la distanza tra rivoluzione e arte e il rovello non si placa. “La felicità non è felice” diceva Carmelo Bene intenendo innanzitutto che la felicità è il suo differimento, ma pure che non si è mai dove ci si dice di essere e, laddove si divenga, si sia in realtà superato il processo del proprio divenire: l’attrice che nel film impersona Lisistrata in qualche misura “diviene” Lisistrata e, con ciò, non può più interpretarla. Il velo di Maya si squarcia e l’esigenza di un superamento attivo si fa impellente: ha senso muoversi su un palcoscenico o girare un film mentre il mondo è in fiamme? Come può un artista pensare di incidere politicamente se resta “fuori” dall’agone? L’Iran, con l’incarcerazione di molti artisti e cineasti (ultimo in ordine di tempo Saeed Roustaee, autore del bellissimo Leila e i suoi fratelli), è un Paese in cui la risposta pare evidente: l’arte è azione politica. Ayat Najafi, però, abita a Berlino eppure è lì con una compagnia teatrale, a riprenderla, dirigerla, costruendo il meccanismo filmico. “Sei solo un turista” dice a Najafi la “Lisistrata” del film che a un certo punto non può, non vuole, più recitare: la donna implicitamente chiede al regista perché sta facendo il film. È attorno a questa aporetica domanda, che il regista rivolge a se stesso, che ruota in fondo The Sun Will Rise: Najafi si mette in discussione forse anche mostrando il senso di colpa per non risiedere più nel proprio tormentato e vivissimo Paese. Basta questo, inoltre, per ricevere assoluzione o non è, in fondo, questa ennesima spirale interna al film un’ennesima riflessione narcisistica? Najafi è autenticamente in gioco e non manca di un certo coraggio. Lui stesso in una scena “spiega” del resto alla compagnia cosa sta facendo, dicendo loro che il suo lavoro si sviluppa su quattro livelli: il primo è l’opera di Aristofane, il secondo è il gruppo teatrale che la prova, il terzo è nei loro dubbi sulla rappresentazione stessa, ma l’esposizione si interrompe prima che Najafi illustri il “quarto” livello di riflessione che è, lo si capirà poco dopo, il sospetto su se stesso.

Le Giornate degli Autori aprono i battenti accendendo un faro su Teheran attraverso un film che, parlando della condizione delle donne (abusi inclusi), si chiede soprattutto cosa definisca il politico nell’arte e il cui regista sembra cercare una risposta in quel collettivo senza volto, in quella pulsione non ancora divenuta “organismo” che definiscono la cifra stilistica di questo lavoro molto intellettuale che corre forse il rischio di essere intellettualistico ma che, del resto, è come uno specchio che guarda un altro specchio moltiplicando l’immagine originaria e frammentandola sempre più.

Info
The Sun Will Rise sul sito delle Giornate degli Autori.

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