Il male non esiste

Il male non esiste

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Presentato in concorso a Venezia 80, Il male non esiste è il nuovo film di Ryūsuke Hamaguchi che lascia le nevrosi metropolitane per raccontare il Giappone di campagna, un mondo rurale ancorato ai ritmi e alle risorse della natura, dove i concetti etici sono un po’ diversi da quelli della società urbana che si trova a due passi, e dove è sempre presente la precarietà della vita umana. La grande e moderna metropoli però rischia di inglobare quel mondo per ridurlo al divertimentificio dei giorni di festa.

Il profumo del wasabi selvatico

Takumi e la figlia Hana vivono nel villaggio di Mizubiki, nei pressi di Tokyo, conducendo una vita modesta assecondando i cicli e l’ordine della natura. Un giorno, gli abitanti del villaggio vengono a conoscenza del progetto di costruire nel loro territorio, un glamping, inteso a offrire ai residenti delle città una piacevole fonte di “evasione” nella natura. Quando due funzionari di Tokio giungono al villaggio per tenere un incontro, diventa chiaro che il progetto avrà̀ un impatto negativo sulla rete idrica locale, e ciò̀ causa il malcontento generale. Le intenzioni contraddittorie dell’agenzia mettono in pericolo sia l’equilibrio ecologico dell’altopiano sia lo stile di vita degli abitanti. [sinossi]

L’acqua scorre da monte a valle. Sembra una banalità, un qualcosa che anche un bambino delle elementari dovrebbe sapere, per la semplice legge di gravità. Eppure, a questa obiezione degli abitanti del villaggio di campagna, nell’assemblea pubblica cittadina dove viene illustrato loro un pacchiano progetto turistico, i due impacciati funzionari che arrivano da Tokyo, non possono che trincerarsi di fronte a un «No, i nostri tecnici hanno analizzato la situazione». Le fosse settiche dell’impianto progettato inquinerebbero la falda contaminando i pozzi che si trovano a valle: lo capiscono gli abitanti del villaggio per semplice sapere empirico, ma gli esperti non lo capiscono o, più probabilmente non vogliono capirlo. Questa scena, peraltro ispirata a una situazione realmente accaduta, appare in un momento centrale di Evil Does Not Exist (Il titolo originale è traslitterato come Aku wa sonzai shinai, in Italia si è optato per Il male non esiste nonostante venne distribuito così anche il film con cui Mohammad Rasoulof vinse l’Orso d’Oro nel 2020), nuova opera di Ryūsuke Hamaguchi che focalizza la sua attenzione su un antico mondo rurale che persiste nel modernissimo Giappone. Poche volte il cinema nipponico se n’è accorto: Himatsuri di Mitsuo Yanagimachi è una di quelle, come Sleeping Man di Kohei Oguri, mentre possiamo arrivare ai due La ballata di Narayama per un esempio simile, ma portato all’estremo, di relativismo etico di una mentalità premoderna, che sposta il male in un altrove rispetto alla nostra mentalità.

L’acqua che scorre da fiume a valle, come il fiume, è una metafora della vita, il cui decorso è unidirezionale. E l’immagine ci porta a quel concetto chiave della cultura orientale riguardante la estrema precarietà della vita. In una scena bellissima Takumi, il tuttofare del villaggio, porta la figlioletta Hana in giro per i boschi, insegnandole a riconoscere le specie arboree e la cultura silvestre. A un certo punto padre e figlia si imbattono nella carcassa di un cerbiatto. Il padre spiega che deve essere morto dopo essere stato colpito da un colpo di fucile di un cacciatore, e che deve aver agonizzato a lungo prima del decesso. Aggiungiamo per nulla, visto che il cacciatore deve aver perso di vista la sua preda, il cui corpo è rimasto a decomporsi nel bosco. Hana rimane indifferente rispetto a un qualcosa che un bambino di città, ma anche a un adulto, cresciuto con l’immagine fiabesca di Bambi, troverebbe agghiacciante. Fa parte di quella mentalità cittadina che ormai si è completamente svincolata dai cicli della natura, dalla consapevolezza delle origini delle risorse alimentari che semplicemente acquistiamo al supermercato. I cervi fanno anche parte della cultura tradizionale nipponica, quelli dell’ancestrale città di Nara, innocui e ormai più di pertinenza turistica. Ma, ci racconta Hamaguchi, i cervi non sono quello che sembrano.

Takumi taglia gli alberi e poi ne produce ceppi, riempendo taniche di acqua sorgiva. Si occupa di prelevare risorse dall’ambiente, per il fabbisogno degli abitanti del villaggio, in modo assolutamente sostenibile. Insostenibile invece il progetto turistico, già dal nome ridicolo di glamping, contrazione delle parole ‘glamour’ e ‘camping’, concepito per villeggianti della domenica, dalla vicina città, per il relax e per scaricare lo stress della settimana lavorativa. Immaginato da chi non ha la minima idea della vera vita secondo natura. Tutto è stato perso nella vita di città finanche il wasabi selvatico, molto raro in natura e sostituito, nei comuni ristoranti di sushi, da un surrogato in tubetto. Quel vero wasabi, appena raccolto, è ottimo, dicono nel villaggio, per la cucina stagionale, altra pratica persa nel mondo moderno da quando esistono le tecnologie di conservazione. Gli abitanti del villaggio non sono comunque dei veri autoctoni. I loro discendenti sono dei coloni che si sono trasferiti lì dopo la guerra, mentre la titolare di un ristorante di soba vi è arrivata più di recente, lasciando la città, attirata dalla purezza delle acque sorgive con le quali poter fare zuppe buonissime. Quello che è importante è l’equilibrio che questa comunità ha saputo raggiungere con l’ambiente, che sarebbe fortemente compromesso con il paventato progetto di glamping. Takumi e i suoi compaesani, sono il tipico esempio di jōmin (il popolo persistente o la gente eterna), come definiti dal grande etnologo Kunio Yanagita, che tramandano un sapere ancestrale, rappresentando la cultura nativa, il Giappone autentico, la “spina dorsale spirituale” del paese. E che coincidono con gli strati sociali più bassi, artigiani, monaci mendicanti, fabbri e ovviamente contadini. Si è detto di questo senso forte di impermanenza della vita, che dalla carcassa del cerbiatto si può estendere alla figura assente della madre di Hana, di cui nulla si sa. Si vede solo in due foto, una delle quali con la bimba della stessa età di come è nel film, a segnalare che la scomparsa della donna deve essere recente. Che sia morte o altro non è dato sapere, ma questo ci porta alla classica famiglia tronca, ovvero mancante di uno o più componenti, tipica del cinema di Ozu.

Il male non esiste contiene momenti elegiaci di grande fascino estetico, alberi che sfilano ripresi da una carrellata dal basso, una panoramica che esplora lo spazio e poi diventa un camera-car che si sposta sulla strada, nel retro di un’automobile, laghetti ghiacciati e altro. Immagini di grande armonia concepite con l’interazione della compositrice Eiko Ishibashi, in una collaborazione che parte dalla realizzazione di filmati che il regista ha realizzato per un concerto di quest’ultima, che poi hanno costituito l’ossatura del film. Queste scene straordinarie, organiche e compenetrate con la natura, sono equivalenti di quell’armonia dello stile di vita degli abitanti del villaggio. La città, che si vede solo a un certo punto del film, non può che produrre immagini stereotipate dozzinali, scadenti come quelle dello spot turistico, contraltare delle magnifiche riprese dei boschi fatte da Hamaguchi, con il direttore della fotografia Yoshio Kitagawa. La società incaricata della promozione del progetto è, guarda caso, una società dello spettacolo che realizza serie televisive come quelle in cui recitava Takahashi, uno dei due funzionari incaricati di far piacere il glamping alla popolazione. Quando finisce il collegamento su schermo tra questi due impiegati e l’imprenditore che li ha ingaggiati (seduto a un certo punto nel suo ufficio con alle spalle un’immagine che ne riproduce la postura), la discussione tra i due prosegue ripresa nello schermo del pc, ormai senza più collegamento, nel loro ufficio. Ennesimo tocco di raffinatezza cinematografica che sottolinea così, con un quadro nell’inquadratura, la dimensione chiusa della vita in città. I due colleghi sono ulteriori personaggi costruiti in modo magistrale. Sono persone mediocri e impacciate, mandate allo sbaraglio. Ma a contatto con la campagna in cui non sono mai stati – Takahashi non aveva mai sentito uno sparo–, percepiscono un’attrazione ancestrale per quel mondo, che si manifesta banalmente nell’imparare a tagliare i ceppi di legno con l’ascia. Il male non esiste si conclude con un finale criptico. Si deduce che Hana, che era scomparsa, sia stata inghiottita in un altro mondo, portando con sé il padre e un cervo. Come in un Hanging Rock, che rappresentava la via di fuga dalla rigida società vittoriana, qui si evapora da un mondo che ha perso il legame con le sue radici biologiche, con una dimensione rurale che viene cancellata per gretti interessi capitalistici.

Info
Il male non esiste sul sito della Biennale.

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