La foresta dei pugnali volanti

La foresta dei pugnali volanti

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Realizzato due anni dopo Hero, La foresta dei pugnali volanti nel 2004 segnò il definitivo punto di svolta all’interno della filmografia di Zhang Yimou, che riappropriandosi della produzione wuxia che fu resa immortale da King Hu e Chang Cheh trova una collocazione sempre più centrale all’interno dell’industria cinematografica cinese. A poco meno di venti anni dalla sua prima proiezione il film viene presentato alla Festa di Roma all’interno dell’omaggio a Shigeru Umebayashi.

La ragazza del Padiglione delle Peonie

Cina, anno 859. Durante la dinastia Tang si forma un’organizzazione di ribelli, conosciuta come l’alleanza dei Pugnali Volanti: la setta è formata da rivoluzionari, abili guerrieri ed assassini, che si oppongono all’imperatore, ritenuto per la sua inettitudine colpevole della decadenza e della corruzione che attanaglia il Paese, e ottengono sempre più il favore da parte del popolo mentre rubano ai ricchi per dare ai poveri. Si sospetta che Xiao Mei (una danzatrice cieca da poco giunta in una casa di piacere detta Padiglione delle Peonie e straordinariamente esperta nelle arti marziali) sia la figlia scomparsa del capo di tale setta… [sinossi]

Fa uno strano effetto, nell’ottobre 2023, tornare a ragionare su La foresta dei pugnali volanti (十面埋伏, vale a dire Shí miàn mái fú, seguendo la traslitterazione attuale). Di acqua sotto i ponti ne è passata molta, e i grandi interrogativi che questo film insieme all’immediatamente precedente Hero sollevarono paiono lontanissimi, ben più distanti di un paio di decadi; sembra quasi in effetti di muoversi con la memoria in un’altra epoca, che si approcciava all’immagine con modalità quasi completamente differenti, e disquisiva sulle stesse in altra maniera, “migliore” o “peggiore” che fosse. Quando in occidente arrivò Hero, tra il 2002 e il 2003, la visione sconvolse parte non indifferente del parterre critico, saggistico, e cinefilo: Zhang Yimou, colui che aveva portato per la prima volta con continuità il cinema cinese nel salotto culturale europeo – anche più del coevo Chen Kaige –, abbandonava la autorialità dei vari Lanterne rosse, Sorgo rosso, Ju Dou, La storia di Qiu Ju, e Non uno di meno, che complessivamente gli avevano portato in dote due Leoni d’Oro veneziani, e si confrontava con un film di arti marziali e di combattimenti. Com’è ovvio dietro tale sbigottimento critico soggiaceva un fraintendimento culturale o forse la non dimestichezza con un genere cinematografico, il wuxiapian o wuxia, i cui codici erano per lo più ignoti nonostante la conoscenza di qualche classico come La fanciulla cavaliere errante di King Hu o Mantieni l’odio per la tua vendetta di Chang Cheh, com’erano stati tradotti all’epoca in Italia i film conosciuti a livello internazionale come A Touch of Zen e One-Armed Swordsman. Fatto sta che quando nel lancio de La foresta dei pugnali volanti Zhang parlò di incursione finalmente del tutto consapevole nel wuxia dopo l’esperimento-Hero, in molti si sentirono “traditi”, come se l’autorialità lasciasse spazio a un lavoro inevitabilmente meno raffinato, o soprattutto personale.

Rivisto diciannove anni più tardi, al di là delle speculazioni prettamente legate alla qualità coreografica di un’opera che non ha timore di prendere i cardini del genere per semplificarli indirizzandoli verso il grande pubblico occidentale – ancor più de La tigre e il dragone di Ang Lee, che aveva spopolato dagli Stati Uniti all’Europa –, La foresta dei pugnali volanti assume in tutto e per tutto il ruolo di punto di svolta all’interno della carriera di Zhang; da lì in avanti verrà meno lo sguardo critico nei confronti della Cina e del suo sviluppo socio-economico-politico e il regista si allineerà allo standard dell’egemonia cinematografica nazionale, diventando il vero e proprio cantore di un Paese lanciato verso la conquista del mondo. Non è casuale d’altronde che a lui sia stata affidata nel 2008 la regia della cerimonia d’apertura delle Olimpiadi di Pechino. La storia del triangolo amoroso tra Mei, Jin, e Liu, che mescola l’arte marziale al mélo assecondando dunque il canone, sarà anche figlia di King Hu – e il combattimento nei meandri della foresta di bambù lascia ben poco spazio all’immaginazione, in tal senso – ma soprattutto certifica le timbriche del nuovo concetto di blockbuster cinese, di cui Zhang sarà coriaceo cantore grazie a titoli quali La città proibita, I fiori della guerra, The Great Wall, Shadow, Cliff Walkers, fino al recentissimo e appassionante Full River Red visto all’ultimo Far East Film Festival di Udine.

Da un punto di vista strettamente tematico La foresta dei pugnali volanti non fa in fin dei conti che “facilitare” l’accesso ad alcune delle suggestioni già presenti nel cinema di Zhang nelle opere strutturate per prendere parte ai festival europei, mentre politicamente si fa largo nella narrazione la rappresentazione di un impero combattuto non in quanto tale ma solo perché in uno stato di decadenza; per quanto in un certo qual modo l’alleanza dei Pugnali Volanti “redistribuisca” i beni ai poveri dopo averli sottratti ai ricchi, il Paese ha comunque bisogno di una leadership forte, in qualche modo dunque operando una captatio benevolentiae nei confronti del governo di Pechino. Per il resto Zhang legge il wuxia come il superamento delle pastoie del verbo a favore del movimento: la trama si sviluppa esclusivamente attraverso l’azione, per di più quasi interamente in esterni (ma la sequenza più giustamente celebrata, quella che vede Zhang Ziyi ballare seguendo il suono dei tamburi, è in pratica l’unica in interni), e a suggestionare il pubblico arrivano le coreografie, il colore lavorato ricorrendo a non pochi filtri, il rumore. Ne deriva una visione in tutto e per tutto cinematica, che senza dubbio ha il potere di irretire la retina, grazie anche al lavoro sul corpo, sul suo movimento nello spazio, e dunque sui limiti apparenti della gravità, e che grazie alla sua eleganza riesce a sopperire in gran parte alla retorica del racconto, a un certo manierismo che depotenzia il côté purulento della vicenda – si parla pur sempre di vendetta, amore, e morte –, e a una semplificazione eccessiva del genere, che pure presenta l’interessante visione di un mondo in cui una volta che il proscenio è preso dall’amore l’agone politico si dimostra poco più di un mcguffin, con tanto di battaglia “determinante” del tutto fuori dal contesto narrativo, quasi laterale, pressoché invisibile. Di nuovo, fa uno strano effetto, nell’ottobre 2023, tornare a ragionare su La foresta dei pugnali volanti: in un lustro quel furore punk che aveva irradiato la Cina (post)moderna in Keep Cool è stato risucchiato dall’ancien regime del contemporaneo, e dalla necessità di un regista/nazione di non profetizzare il futuro, ma ancorarsi al passato che non può – non vuole – ferire, ma ammaliare l’occhio.

Info
La foresta dei pugnali volanti, il trailer.

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