Un silence

Un silence

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Un atto abominevole fa calare un sipario di buio in seno a una famiglia borghese. Un silence, decimo lungometraggio di Joachim Lafosse, tenta di esplorare le conseguenze del silenzio e del rimosso dando vita a un film talmente rigoroso da essere quasi inerte, se non fosse per le ottime interpretazioni dei due attori principali.

Caché

Dopo aver taciuto per 25 anni, Astrid, moglie di un famoso avvocato, vede crollare il suo equilibrio familiare quando i suoi figli decidono di ricorrere alla giustizia. [sinossi]

Il belga Joachim Lafosse (che con Un silence firma il suo decimo lungometraggio) è un cineasta avvezzo a trattare il tema dei segreti e dei rimossi famigliari, sin dal primo film che lo ha reso noto anche da noi, Proprietà privata (Nue Propriété, 2006). In questo suo ultimo lavoro, “il silenzio” è al tempo stesso la causa e la conseguenza di un dramma inaffrontabile, per i componenti della famiglia Schaar: quello riguardante la violenza sessuale contro i minori e la pedopornografia. Due sono i poli che dominano la narrazione: il volto tragico e impietrito di Astrid e il buio. Si parta dal primo. Astrid (Emmanuelle Devos) da anni tenta di tenere in piedi una famiglia le cui radici sono oramai rosicchiate dal male, come un mobile di legno infestato dalle tarme e in procinto di sfasciarsi. La donna è consapevole che la sua è una lotta disperata, ma tenta ugualmente perché non sa e non può fare altro. Nella sua proiezione di sé come moglie (di François, celebre avvocato, interpretato da Daniel Auteuil) e madre (di Raphaël, l’esordiente Matthieu Galoux) la sua mente è interamente concentrata nello sforzo di preservare l’unità famigliare nonostante tutto. Tacere, dunque, non è solo opportuno, è vitale. Eppure il suo sguardo irrequieto continua a vagare in cerca di un possibile aiuto, uno sguardo apparentemente incapace di voltarsi indietro e fissare il passato e i suoi segreti, che tutt’al più si posa per qualche breve istante sullo specchietto retrovisore dell’auto come per cogliere, di quel passato, degli squarci, al riparo da una visione diretta. O per controllare che non la raggiunga.

Di questo regno del silenzio, il buio è la configurazione visiva. Al buio non si vede, nel buio si possono nascondere cose, persone e avvenimenti. Il buio degli interni è qui, letteralmente, il buio dell’anima. La coscienza fattasi opaca. Utilizzando quasi prevalentemente la luce naturale negli interni, Lafosse architetta perciò questa strategia del buio o del semibuio che permea le pareti della dimora degli Schaar. Solo fuori c’è piena luce: per la strada, fuori dalla casa dell’altro figlio, oramai grande, dove Astrid incontra la compagna (lui non lo vediamo mai perché ha escluso la sua famiglia d’origine dalla sua vita). E ovviamente c’è luce davanti al tribunale, dove François Schaar elargisce dichiarazioni ai giornalisti sul caso di pedofilia che sta affrontando. Ma è una luce comunque menzognera, che copre e mistifica e che vede una volta di più un Daniel Auteuil nascosto/caché in pieno giorno, come in Niente da nascondere (Caché, 2005) di Michael Haneke. All’utilizzo del buio si accompagna anche quello del fuoricampo. Tutti gli avvenimenti più importanti avvengono fuori dal campo visivo, spaziale o temporale, e con ciò ribadiscono una volta di più non solo il rigore della regia, ma anche la necessità del rimosso.

Tuttavia alla fine questo estremo rigore rischia di paralizzare e indebolire un film interamente giocato su quest’unica parabola esistenziale e morale di una donna che si trova costretta decidere se siano le menzogne oppure la verità a poter proteggere e salvare la sua famiglia. L’ambiguità è solo tematizzata, mai sfruttata a livello di sottotesto, come invece accadeva nel citato film di Haneke, che del nucleo primario borghese, la famiglia, erigeva un’efficace allegoria. Qui ci sono dei fatti che a poco a poco si chiariscono, come in un thriller, fino a obbligarci a prendere una posizione, che è però una posizione piuttosto ovvia. Ciò che invece è interessante è il fatto di rappresentare un’intera famiglia come un corpo malato, in cui il male sembra diffondersi come per contagio. Ma è un concetto poco approfondito, subito riassorbito dall’esigenza di sciogliere tutti i nodi rimasti in sospeso.

Restano le eccellenti interpretazioni di Auteuil e, soprattutto, di Emmanuelle Devos, il cui sguardo pare sempre fisso sull’istante presente, tutta compresa nello sforzo di non voltarsi mai indietro per non fare la fine della moglie di Lot, trasformata in una statua di sale, pur sapendo perfettamente che prima o poi dovrà farlo.

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