La terra della grande promessa

La terra della grande promessa

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Tratto dal romanzo La terra promessa di Władysław Reymont, Premio Nobel per la Letteratura nel 1924 per I contadini, La terra della grande promessa di Andrzej Wajda è un affresco dalle sfumature anche grandguignolesche sull’umanità brulicante di Łódź, cittadina divenuta troppo rapidamente città industriale che si presta perfettamente a essere un’avvilente metafora di quello che sarà il capitalismo, rampante e spietato. A CiakPolska 2023 tra i Grandi classici del cinema polacco.

Il capitale umano

Anni Ottanta dell’Ottocento. Karol Borowiecki – un giovane ingegnere polacco di origini nobili – e i suoi due amici, l’intermediario commerciale ebreo Moryc Welt e il tedesco Maks Baum, figlio del proprietario di un cotonificio in bancarotta, sognano di aprire una propria fabbrica tessile. Ma in un mondo dominato dal denaro, la realizzazione dei sogni ha certamente un prezzo. [sinossi]

Tratto dal romanzo La terra promessa (1898) di Władysław Reymont, Premio Nobel per la Letteratura nel 1924 per I contadini (1906-09), La terra della grande promessa (1975) di Andrzej Wajda è un affresco dalle sfumature anche grandguignolesche sull’umanità brulicante di Łódź, cittadina divenuta troppo rapidamente città industriale che si presta perfettamente a essere un’avvilente metafora di quello che sarà il capitalismo, rampante e spietato. E se il successivo e più noto romanzo di Reymont, I contadini, può essere considerato una sorta di contraltare positivo, pur non privo di increspature, non c’è ovviamente un titolo wajdiano che possa riscattare pienamente il pestilenziale crogiolo di Łódź. Nelle quasi tre ore della pellicola, in una discesa agli inferi piuttosto repentina (dal quadretto bucolico dell’incipit siamo prontamente trascinati tra le via fangose e le fatiscenti baracche della povera gente), assistiamo infatti a una lunga serie di prevaricazioni, abusi, delitti, mentre ai lavoratori non resta che la resa, la sofferenza, la morte.

Lo stile barocco e alquanto libero scelto da Wajda per questo film veicola, a tratti in modo onirico se non allucinatorio, un orrore strisciante, un germe che indebolisce persino i padroni o quantomeno quelli con qualche vago residuo di umanità. Più del cinismo di Karol Borowiecki e dei suoi compari Maks Baum e Moryc Welt, esponenti di una nuova generazione che rinnega qualsiasi legame col passato, a colpire è il contesto, il quadro generale, l’ineluttabilità del capitalismo. Più dei tradimenti e delle manovre spericolate di Borowiecki, tratteggiato mirabilmente da Daniel Olbrychski, volto ricorrente nella filmografia wajdiana, sono le figure in secondo o terzo piano, destinate a volatilizzarsi, sparendo o morendo, a tenere unito La terra della grande promessa, a fare da collante quasi invisibile. É il fango della seconda sequenza, è il sangue degli operai morti sul lavoro, sono le frattaglie e i brandelli di carne del povero padre di Zoska, ragazzina che non può far altro che cedere alle bramosie orgiastiche dei padroni: dietro alle cospirazioni dei tre protagonisti, ai prezzi che salgono e scendono del cotone, alle fabbriche in fiamme, ai tonfi e ai trionfi, ci sono le sempiterne vittime di un meccanismo socio-economico spietato, mostruoso. Ed il Mostro, fin dalle prime sequenze, Wajda ce lo indica chiaramente: è l’incombente fabbrica-Moloch, coi suoi camini fumanti e il fuoco che sembra chiedere continui sacrifici umani. Allo stesso modo, nell’ultima sequenza, il regista ci chiede di focalizzare il nostro sguardo su una bandiera rossa, stretta in pugno da un operaio colpito a morte dalla polizia: nell’implosione della città tessile, nel fagocitante sistema capitalista, ma anche nella montante rivolta, nell’Insurrezione di Łódź del 1905 e nella dissoluzione oramai alle porte del Regno del Congresso ritroviamo ancora una volta il cristallino cinema di Andrzej Wajda, il legame indissolubile con la Storia, l’afflato rigorosamente politico. Grazie al romanzo di Reymont, Wajda può immergersi e immergerci in una dimensione distorta quanto reale, in una bolla economica e di potere pronta a esplodere, lontana da noi e dal nostro tempo, ma non tanto diversa dalle altre pericolosissime bolle che ci circondano e\o inglobano. In questo, come in altri film di Wajda, lo sguardo sul passato è propedeutico al nostro presente e al nostro futuro, è politico e culturale, umanista e inscalfibile, tanto da poterlo persino riallacciare a un’opera fuori dal tempo e apparentemente distante come Sul globo d’argento (1977/88) di Andrzej Żuławski: in entrambi i casi risplendono la febbrile necessità creativa, narrativa, estetica, la ricerca di uno stile che sia in grado di far deflagrare l’ardito contenuto – in questo caso, sarà Żuławski a restare intrappolato nelle maglie della censura, troppo eretico.

Ed è interessante, spostandoci verso un’altra cinematografia e in un racconto contemporaneo, che sia un film come La classe operaia va in paradiso (1971) di Elio Petri a fare da ideale fuori campo a La terra della grande promessa, una sorta di dialogo politico a distanza, rimarcando così il minuzioso lavoro di osservazione di Reymont, che a Łódź aveva vissuto, e lo sguardo di Wajda sulla storia della Polonia ma anche oltre i confini, ieri come oggi. Quella Łódź ingrassata a lana e cotone, dominata dai fumi delle ciminiere, divisa tra polacchi, tedeschi ed ebrei, lanciata verso un’industrializzazione e un’urbanizzazione selvaggia, è lo specchio di un percorso che oltrepassa a grandi falcate i confini nazionali. A distanza di quasi mezzo secolo dalla prima proiezione de La terra della grande promessa, pellicola arrivata nella cinquina dell’Oscar per il miglior film straniero (vinse Dersu Uzala di Akira Kurosawa), poi riproposta in una versione più agile per un pubblico più giovane e meno paziente, ma soprattutto a pochi anni dalla scomparsa di Wajda, ci si chiede se il cinema occidentale, soprattutto europeo, avrà ancora la forza di essere così ambizioso, sontuoso, immaginifico, politico…

Info
La terra della grande promessa sul sito di CiakPolska.

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