Un anno difficile

Un anno difficile

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Satira sul consumismo compulsivo e le nuove forme di militanza e di attivismo ecologista, all’apparenza posizioni l’un contro l’altra armate ma molto più permeabili di quanto non possa sembrare, Un anno difficile della coppia di cineasti francesi Nakache-Toledano ha aperto la 41ma edizione del Torino Film Festival.

Vittime e carnefici del Black Friday

Albert e Bruno, due simpatici scrocconi sempre al verde, nel tentativo di imbucarsi a un aperitivo si trovano coinvolti nelle attività di un gruppo di eco-attivisti. Tra inganni, maldestri sotterfugi e sgangherate azioni di protesta, per i due amici sarà forse l’occasione di redimersi e rimettere ordine nelle proprie vite. [sinossi]

Parte benissimo Un anno difficile, mettendo subito le carte in tavola (e, a conti fatti, giocandosi le migliori): un serrato montaggio di brani dei discorsi di fine anno dei vari presidenti della Repubblica francesi degli ultimi decenni evidenzia che in tutti è contenuto il passaggio che quello passato è stato un anno difficile, o lo sarà quello a venire; immediatamente dopo, l’assalto degli avventori ad un negozio durante il Black Friday è presentato in slow-motion e, soprattutto, accompagnato dalle note de La valse à mille temps di George Brassens, che conferiscono al tutto un passo armonioso e coreograficamente elaborato. Che la coppia di cineasti transalpini formata da Olivier Nakache e Eric Toledano, di grande successo in patria e con un paio di buone performance al botteghino anche da noi, soprattutto con Quasi amici, voglia finalmente affondare il colpo senza trincerarsi dietro un ecumenismo di fondo volto a offendere il meno possibile e ad accontentare tutto e tutti? A nostro avviso no, o non fino in fondo, e se questa scelta continua e inscriverli all’interno di un circuito di cineasti popolari per temi e linguaggio (circuito al quale si è appena iscritta anche Paola Cortellesi con C’è ancora domani, attendendo di vedere se e come varcherà le Alpi), li esclude però dai favori di tanta critica e del pubblico più cinefilo, che stigmatizzano spesso senz’appello i tentativi di smussare le asperità e comporre i contrasti che spesso caratterizzano i finali scritti dalla coppia. A chi scrive piaceva molto C’est la vie – Prendila come viene, un loro film del 2017 che ha già avuto in Italia sia un remake ufficiale (Il giorno più bello, diretto da Andrea Zalone, autore e sodale di Maurizio Crozza) che uno ufficioso (Il grande giorno di Massimo Venier, con Aldo, Giovanni e Giacomo), e che si ispirava a grandi maestri come Blake Edwards nella composizione della costruzione a cascata di gag. Schema ripreso anche in quest’ultimo film, non a caso, nei segmenti più riusciti.

I due protagonisti, Albert (Pio Marmaï) e Bruno (Jonathan Coen), si arrabattano per sbarcare il lunario e sono entrambi entrati in una spirale debitoria fatta di prestiti e crediti al consumo da cui è difficilissimo uscire, tanto che il primo salva il secondo dal suicidio involontariamente, mentre sta cercando di approfittarsi di lui rifilandogli l’ennesimo oggetto inutile, una Tv ad alta definizione conquistata a botte durante il Black Friday e poi reimmessa sul mercato a trecento euro. Tramite Bruno, Albert fa la conoscenza di Henri Tomasi (Mathieu Amalric), un consulente che dispensa consigli per mantenere il bilancio personale e familiare sostenibile, e di Valentine (Noémie Merlant), una ragazza altoborghese completamente consegnatasi alla causa ambientalista e alla lotta al sovraconsumo. Bastano questi cenni per avere un’idea delle dinamiche pronte a scatenarsi tra questi quattro poli principali, ma l’aggiunta di un paio di esempi può rendere il quadro ancora più chiaro: Albert e Bruno si offrono volontari per il ritiro di oggetti e mobilia dalle case dei ricchi “conquistati” da questo nuovo richiamo all’essenzialità e al francescanesimo, e ne approfittano però per rivenderli e uscire dai debiti personali; il consulente Tomasi, prodigo di richiami alla sobrietà, si rivela ben presto essere un giocatore d’azzardo compulsivo. Tutto narrativamente organizzato, dunque, secondo un rodato schema a svelamento in cui ogni personaggio rivela di avere caratteristiche comuni con il suo opposto, e che si trova a fare quel che fa solo perché il Caso lo ha portato in una direzione piuttosto che nell’altra. Questo approccio deterministico è anche condivisibile, e si comprende bene come arrivi ad essere un contenitore perfetto per l’alternarsi di momenti divertenti e intimisti, ma i Nostri somministrano meriti e colpe con un bilancino che ottiene sì l’effetto di scacciare il manicheismo, ma che appare più come una sorta di manuale Cencelli della responsabilità che colpisce e blandisce allo stesso modo ogni categoria. Il grande successo di pubblico si ottiene anche in questo modo e non c’è nulla di male, ma quando il meccanismo appare così scoperto segnalarlo in sede d’analisi diventa obbligatorio.

Purtroppo alla scoppiettante prima parte non segue un andamento altrettanto brillante nella seconda (c’è un evento specifico che segna la frattura tra le due): a temi abilmente lanciati non corrispondono approdi altrettanto validi e le potenzialità di qualche personaggio vengono completamente sprecate. Ci riferiamo principalmente al Tomasi di Amalric, ridotto presto a macchietta stancamente slapstick mentre sembrava incarnare una delle contraddizioni più interessanti, ma anche a Valentine/Cactus, che non acquista mai una soggettività propria che vada oltre il monologhetto che riassume il suo passato, e rimane una funzione narrativa da attivare nei percorsi degli altri. A cosa servono, poi, due brani straordinari come Little Wing di Jimi Hendrix e The End dei Doors in quel contesto, appiccicati su scene che non sembrano richiederne la presenza? A collegare idealmente i movimenti di protesta attuali con quelli sessantottini? Se era questa l’intenzione, l’obiettivo non è stato centrato. Nakache e Toledano continuano, dunque, il loro percorso in modo tutto sommato coerente, e rimangono capaci di orchestrare e scrivere commedie collettive formalmente “esatte”, con più di un momento brillante; parimenti non sembrano avere, però, lo spessore culturale per infondere ai loro copioni approdi tematici dello stesso livello delle premesse. Per lasciare il paragone con gli anni Sessanta da loro stessi evocato, avrebbero bisogno di uno come Terry Southern a rileggere e innervare il copione. Certo, alla stregua del trovare epigoni contemporanei a Hendrix e Morrison, è tutto tranne che facile.

Info
Un anno difficile, il trailer.

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