Radio On

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Sono trascorsi quarantacinque anni dalla sua realizzazione, e Lab80 (già distributore all’epoca) riporta sul grande schermo Radio On, il road-movie post-punk con cui Christopher Petit aggiorna il tema antonioniano – e “moderno” – della ricerca dell’identità e del senso al ritmo di Kraftwerk, David Bowie, Devo, Robert Fripp. A co-produrre ci pensa Wim Wenders, uno che di rock e strade aveva fatto una parte fondamentale della propria poetica.

Ohm Sweet Ohm

Il disc-jockey Robert va da Londra a Bristol per scoprire cosa ha spinto il fratello a togliersi la vita. Incontra un disertore scozzese, un meccanico appassionato di musica, una donna in cerca della figlia scomparsa. [sinossi]

Antonio Gramsci scrisse: «Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri». Una situazione politica, sociale, perfino intima, che è possibile intravedere in molte epoche storiche, di solito a ridosso di mutamenti, sconvolgimenti dello status quo. Ed è proprio il momento di stasi in cui si trova anche Robert, dj londinese che riceve la notizia del suicidio del fratello, con cui da anni non aveva più nessuna relazione. Robert vuole sapere il perché di quel gesto, vuole conoscere il motivo che ha spinto suo fratello a uccidersi, e così si mette alla guida della sua automobile e dalla capitale si muove in direzione di Bristol, nel sud-ovest del Paese a poca distanza dal Galles (solo un lembo d’acqua la divide da Newport); neanche duecento chilometri da percorrere guidando con la radio accesa, attraversando una nazione in crisi esattamente come lui, e come suo fratello, con l’inflazione galoppante e il primo mandato di Margaret Thatcher che non farà che inasprire le condizioni delle classi subalterne, divaricando all’estremo la cosiddetta “forbice sociale”. Questo è il contesto, nonché il brandello di narrazione, sul quale si va a innestare nel 1979 Radio On, esordio alla regia dell’allora trentenne giornalista britannico Christopher Petit, che Lab80 portò in sala anche in Italia e che ora sempre con la casa di distribuzione orobica torna sul grande schermo in occasione del suo quarantacinquesimo compleanno. All’epoca il film registrò un picco d’interesse cinefilo in particolar modo perché come produttore per la parte tedesca (il film è una co-produzione anglo-germanica) si mosse Wim Wenders, il regista che stava marchiando a fuoco l’immaginario europeo del periodo con titoli quali La paura del portiere prima del calcio di rigore (Die Angst des Tormanns beim Elfmeter, 1972), Alice nelle città (Alice in den Städten, 1973), Falso movimento (Falsche Bewegung, 1975), Nel corso del tempo (Im Lauf der Zeit, 1976), e L’amico americano (Der amerikanische Freund, 1977). L’incoronazione di Wenders arriverà di lì a pochissimi anni, dapprima alla Mostra di Venezia – Leone d’Oro per Lo stato delle cose (Der Stand der Dinge, 1982) – e quindi a Cannes, dove ottenne nel 1984 la Palma d’Oro con Paris, Texas.

Eppure, nonostante il ruolo svolto da Wenders, appare davvero forzato ridurre il potere espressivo e il senso politico dell’immagine lavorata da Petit a un mero esercizio di riconduzione sulle autobahn già percorse dal regista tedesco. Fin dall’incipit che sui titoli di testa vede irrompere Heroes di David Bowie nella sua versione metà inglese metà germanica – quasi un rimando ideale al concetto stesso di co-produzione, ma ovviamente anche una riflessione sulla nuova Europa, quella che dovrà necessariamente vedere la ricongiunzione ideale tra il mondo anglo e quello sassone – appare evidente come Radio On sia una creatura a sé stante, del tutto figlia del proprio tempo. Un tempo che è politico, ma anche musicale prima ancora che cinematografico: così il film si può muovere al ritmo di Kraftwerk, David Bowie, Devo, Robert Fripp, Lene Lovich, The Rumour, Eric Goulden alias Wreckless Eric, Ian Dury & The Blockheads, Sting che fa il verso a Eddie Cochran. Una scelta che si fa naturalmente diegetica nel momento in cui narrativamente Robert si certifica come disc-jockey, ma che acquista il senso di rivendicazione di un’appartenenza post-punk, livida come quel paesaggio privo di speranza che accompagna il “falso” movimento del protagonista: falso perché seguendo le piste tracciate da Michelangelo Antonioni non ci si può che perdere nel momento in cui si pretende di trovare qualcosa (la verità?) o qualcuno. Wenders guarda al rock libertario degli anni Sessanta nella sua veste concretamente utopica, ma la disillusione è invece il minimo comun denominatore delle immagini pensate da Petit, che non a caso si pone già in un atteggiamento intellettuale “post”: la sua è una generazione già elettronica, immersa in un futuro che non comprende, sballata dai videogiochi ma ancora in una grigia dimensione industriale, fetida. Si potrà essere anche eroi, ma solo per un giorno.

Al di là della stupefacente carrellata di canzoni, che senza dubbio connotano con forza l’immagine del film, inguainata in quel bianco e nero contrastato e disadorno che negli stessi anni dall’altra parte dell’oceano lavorerà lo sguardo no wave di Amos Poe, e quindi la brutalità post-tutto di Richard Kern, Radio On si segnala come puntuale resa dei conti di un cinema belligerante anche quando la sconfitta è già stata ratificata. In questo senso, nell’ottundente immobilismo di un film in perenne movimento spaziale, nell’impossibilità della scoperta dell’identità, e soprattutto in un iperrealismo quasi astratto che in Wenders non si percepisce, i punti di riferimento ideali di Petit sembrano semmai Michelangelo Antonioni e Jean-Luc Godard, quello pre-Mao ovviamente. E infatti Robert non potrà che abbandonare il viaggio e dunque la macchina, per ritrovare la propria casa – con Ohm Sweet Ohm dei Kraftwer come ironico contrappunto – a bordo di un treno, con il tracciato dei binari da cui non si può evadere, e con l’elettronica umanista a farla da padrone. L’ultra-umano che irrompe là dove l’umano non sa più definirsi, comprendersi, né sa più creare una vera dialettica, se non quella immersa in un passato che non ha più o forse non ha mai avuto senso, come emerge dalla sequenza forse più significativa, quella che vede Sting interpretare un benzinaio con il mito di Eddie Cochran, fulgido esponente già all’epoca dimenticato del primo rockabilly che ha come principale “merito” per il benzinaio di essere morto proprio lì, a poche centinaia di metri da quella stazione. Riscoprire un’opera come Radio On significa spalancare di nuovo gli occhi su un’immagine che si interrogava ininterrottamente sul proprio senso, sulla propria identità, e su quel chiaroscuro in cui nascono i mostri.

Info
Il trailer di Radio On.

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