Il diamante bianco

Il diamante bianco

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Werner Herzog con Il diamante bianco ci dice, ancora una volta, che la conoscenza delle cose non è mai completamente oggettiva, e che uno sguardo personale e sentito sulla realtà non è affatto un suo tradimento, ma un atto di coerenza e fede in se stessi.

In celluloid we trust

Il desiderio di volare ha spinto da sempre l’uomo a compiere azioni impavide e affidare all’ingegno il proprio sogno e la propria vita: immagini di repertorio riportano di prometeici voli e mortali cadute. L’ingegnere inglese Graham Dorrington, che ha perso due dita di una mano giocando con un razzo da bambino, introduce Werner Herzog nel suo hangar in Inghilterra, dove progetta dirigibili ultraleggeri con cui sorvolare “a pelo d’albero” la giungla della Guiana. Herzog segue ideazione e realizzazione del velivolo per poi recarsi nella foresta pluviale e documentare l’ardita impresa. Ma la realtà che trova è (prevedibilmente) più interessante: si abbandona così ai luoghi, alle persone, alle loro storie… [sinossi]

Allo sguardo dall’alto su realtà ignote, Werner Herzog predilige da sempre una forma di documentario che nasce da un atto di rigida coerenza con se stesso, quello di un’immersione in un mondo “altro” fatta con la predisposizione al cambiamento e al sovvertimento dei propri valori, un’esperienza “limite” che non può che essere tramandata in prima persona. Da anni i suoi documentari ci accompagnano alla scoperta di mondi lontanissimi, esplorati attraverso voce e linguaggio tutti personali, quasi intimi, privi di un abuso intellettualistico del dispositivo cinematografico, ricchi invece di riconoscenza verso lo strumento che lo ha condotto fin lì, tanto che, a sintetizzare il suo modus operandi, potremmo dire che Werner Herzog ha due sole fedi: in se stesso e nel cinema.

La mongolfiera-occhio-cinema che troneggia sull’isola di Procida durante la kermesse (eroique) ghezziana, dove il film è stato presentato, è anche lo sguardo spavaldo di chi ambisce a sorvolare nuovi territori con il prodotto d’ingegneria più sofisticato e effimero. La macchina cinema così come i congegni volanti di Graham Dorrington nel film, si rivelano strumenti necessariamente invasivi, illusoriamente partecipi dell’intima verità dei luoghi, e i tanti dibattiti sul documentario e la sua funzione, ascoltati durante i giorni cruciali del festival Il vento del cinema, restano ineluttabilmente espressione di verità individuali, mai completamente (se non utopicamente) condivisibili. Nel corso di Il diamante bianco, o forse, solo dopo la visione, ci accorgiamo infatti che lo scopo iniziale del volo di Dorrington resta insoluto. L’ingegnere anglofono, che afferma di voler sorvolare la giungla della Guiana per cercare medicine naturali per ogni malattia, dimentica presto la sua mansione sociale per intraprendere una lotta contro se stesso, i propri errori di progettazione, la natura inospitale. La missione utopica e salvifica è poi smentita nei suoi stessi presupposti dall’inatteso subplot che vede il rastafari Marc Anthony introdurre Herzog nella foresta pluviale a piedi, senza sovrastrutture tecnologiche, con i vestiti bagnati da una pioggia scrosciante, alla scoperta delle piante medicinali con cui l’indigeno ha curato ogni suo male.

Completamente catturato dal luogo e dai suoi spiriti, Herzog si concentra via via su altre storie e personaggi, la curiosità quasi infantile e la sincera sensibilità dello sguardo lo predispongono all’ascolto e rivelano le tracce del mai abbandonato ruolo di intenso storyteller. Il medico tedesco della troupe viola la cascata spumeggiante per scovare il nido degli swift, pennuti sacri, secondo la religione del luogo, perché in grado di planare continuamente a pelo d’acqua sull’irruente getto, senza esserne mai risucchiati. Ben diversa sarà la sorte di un piccolo palloncino ad elio, immediatamente assorbito dalle correnti. Un sacerdote locale racconta la leggenda della caverna misteriosa in cui albergano i volatili, luogo inaccessibile e sacro; la voce di Herzog ci dice allora che, nel rispetto della religiosità indigena, le immagini rubate dal medico-speleologo non saranno mai mostrate.

Arduo riassumere in una forma compiuta la quantità di significati che ogni segmento audio visivo propone allo spettatore, quasi una forzatura imposta ad una realtà così potente da parlare per se stessa.
In Il diamante bianco la sfida tecnologica non è quella cui ci ha abituato la cultura americana, marchiata da un peccato originale che la costringe a inscenare senza sosta la propria fine in rutilanti blockbuster estivi, ma quella che la celluloide, in cui ripone ogni speranza di salvezza Herzog, immortala è piuttosto una visione del paesaggio che replica lo stupore e lo smarrimento dell’uomo di fronte all’ignoto, visione perturbante, ma sempre ricercata, che alberga in un immaginario tutto nord europeo.

In attesa di vedere Grizzly Man, documentario su un naturalista fagocitato dagli orsi sul campo, su gran parte di Il diamante bianco aleggia lo spirito eroico del documentarista Dieter Plager, morto mentre sorvolava la giungla dodici anni prima, per un guasto ad uno degli apparati volanti di Dorrington. Il racconto del tragico incidente è sconvolgente e la voce di Dorrington, ancora scossa dagli eventi e dal senso di colpa, riporta ogni particolare. Ovviamente di lì a poco sarà Herzog stesso a proporsi per l’ardito volo e, a convincere l’ingegnere inglese, bastano poche frasi “c’è una stupidità eroica e una stupidità stupida: io devo salire sul velivolo”. Riecheggiano nella mente le frasi pronunciate dal Prometeo teutonico più di vent’anni prima, mentre inveiva contro l’amato nemico Kinsky e, per placare le sue bizze da primattore, diceva “il film è più importante, più di me e di te…”, una dichiarazione d’amore per il cinema, entità superiore ad ogni umano conflitto.
Ma il volo di Herzog, che era salito sul dirigibile con la mdp affermando spavaldo “In celluloid we trust!”, non va a buon fine, uno dei motori si incendia a pochi minuti dal decollo e il White Diamond (questo il nome del velivolo) è costretto a un atterraggio di fortuna.
Nel rifiuto ascetico di una narrazione che sia reportage illustrativo, Il diamante bianco ci dice, ancora una volta, che la conoscenza delle cose non è mai completamente oggettiva, e lo sguardo personale e sentito gettato sulla realtà non è affatto un suo tradimento, ma un atto di coerenza e fede in se stessi.
Degno erede della tradizione kantiana, Werner Herzog realizza documentari di deflagrante potenza filosofica, ogni suo prodotto continua ad essere veicolo di rivelazione e pagina del diario di viaggio dell’ardimentosa avventura del dispositivo cinematografico.

Info
Il trailer de Il diamante bianco.
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