La vita oscena

La vita oscena

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Trasposizione dell’omonimo romanzo autobiografico di Aldo Nove, La vita oscena di Renato De Maria è un film squilibrato e irregolare, antipatico e poco riuscito, ma vivo e pulsante, entusiasta. Un alieno nel cinema italiano attuale. Presentato in Orizzonti al Festival di Venezia. Con Clément Métayer e Isabella Ferrari.

Mi sento scisso, agitato/a

Un racconto di formazione di un ragazzo che attraversa i traumi e i dolori fino in fondo, spingendosi a cercare la morte, per poi arrivare alla rinascita. Un percorso in un mondo allucinato nella sua vita e nella sua visione alterata. Il suo poeta preferito, al quale si ispira, ha scelto la morte, mentre lui trova la forza di sopravvivere e raccontare questa vita oscena.[sinossi]

L’irregolarità, il restare fuori dagli schemi, non sarebbe un valore assoluto. La storia del cinema è piena di esperimenti falliti, di ambizioni autoriali cadute nel vuoto, di vicoli ciechi estetici. Eppure nel cinema italiano attuale, che anche negli autori migliori e più affermati mostra una frequente omogeneità stilistica, stare fuori dal coro rischia di trasformarsi in un valore a prescindere. Ne è prova l’ultimo film di Renato De Maria, La vita oscena, presentato in Orizzonti, che segna il ritorno dell’autore al cinema a cinque anni di distanza da La prima linea. De Maria, anzi, non ha mai disdegnato anche esperienze produttivamente più tradizionali, a partire proprio dal suo film precedente per il cinema senza dimenticare le ripetute esperienze in ambito televisivo. Ma questo non ha costituito in nessun modo una pregiudiziale per il suo globale percorso artistico, che ha dato la luce a uno dei migliori film italiani del decennio scorso, quel Paz! (2001) ispirato ai fumetti di Andrea Pazienza, e che ha comunque mantenuto una cifra personale anche in opere meno note e celebrate come Hotel Paura e Amatemi.

C’è un filo rosso che tiene insieme tutto il cinema più personale di De Maria: la contaminazione, la ricerca estetica, la collisione audio-video, l’adesione a un cinema sporco e irregolare, squilibrato, che non ha paura di rischiare e anche magari di abbandonarsi a intermittenti e rovinosi scivoloni. Certo, ribadiamo, è tutta una questione di proporzioni: nel cinema italiano pochi autori strettamente apparentati con l’industria si permettono simili libertà estetiche, obbedendo invece a una generalizzata mancanza di slancio stilistico che si è tramutata in un mortificante marchio di fabbrica nazionale. In tal senso, anche un film palesemente (quasi volutamente) “non riuscito” come La vita oscena assume una sua importanza e un suo significato.

Già lo stesso progetto a monte appare fuori tempo massimo, ancorato a una modernità letteraria che a suo modo è già modernariato. Il romanzo omonimo di Aldo Nove da cui il film è tratto risale infatti soltanto al 2010, ma si tratta di un’opera autobiografica che ripercorre la formazione dell’artista, colto negli anni dell’adolescenza e del suo personale “passaggio nel fuoco”, calato quindi in anni e umori ormai superati. Gli anni della “disformazione” giovanile di Aldo Nove sono segnati dal dolore, dal precoce confronto con la morte (la scomparsa ravvicinata di entrambi i genitori), dall’amata ingombranza della figura materna, dalla solitudine e da un percorso di conoscenza che non mette paletti di nessun tipo.
Droghe, sesso etero e omo, tentativi di suicidio e le poesie di Trakl, autodistruzione e nichilismo. Un maledettismo poetico ben pertinente alla generazione di Aldo Nove (con enormi approssimazioni, i cosiddetti “Cannibali”) che per l’appunto attiene a un periodo culturale e letterario vicino ma già passato, già modernariato.

De Maria aderisce all’universo di Aldo Nove cercando una forma-cinema che ne rispecchi l’esplosività. E non si risparmia in nulla, dalle varianti di grana dell’immagine alla macchina a mano, da accelerazioni, ralenti e sfocature alla collisione digrignata tra suono e immagine, a vere e proprie scelte di messinscena (vedi le astratte sequenze in discoteca, frutto di precise scelte di regia, che non devono nulla a interventi di post-produzione). Secondo tale logica, assumono una loro rilevanza anche le anodine inquadrature frontali, banalmente televisive, riservate al “gruppo di famiglia”.
Da anni autore anche di serie-tv, De Maria sembra fare tesoro anche di quell’esperienza usandola come ulteriore detonatore estetico in una catena audiovisiva stridente, mai riconciliata. E’ un cinema assolutamente presuntuoso, che mira alto pur sapendo di trattare materiali non nuovissimi e un po’ scolastici. La voice over del protagonista, prestata al volto francese di Clément Métayer (Après mai di Olivier Assayas) dal nostro Fausto Paravidino, recita infatti brani molto meno significativi di quanto vorrebbero essere; l’adolescenza maledetta non è di certo una scoperta dei nostri Cannibali anni ’90. Tutt’al più da loro è stata ri-scoperta, ma appartiene comunque a una collaudatissima tradizione letteraria. Il percorso del protagonista finisce anzi per essere assai esemplare e risaputo, e non giova per l’appunto l’uso invasivo di una voice over che spesso sembra tratta dalle annotazioni personali di un teenager sul diario.

Però il cinema di De Maria ha il coraggio di essere “arty”, termine spregiativo che si tramuta in pregio nel contesto italiano. Un cinema generoso e scisso, che palesa la sua schizofrenia anche in un’inconsueta rilettura del doppiaggio. Giocando tutto sull’espressività di immagine e suono, e affidandosi raramente alle risorse della voce umana, De Maria trasforma in pregio anche la partecipazione di un attore straniero come protagonista. Con ogni evidenza Clément Métayer è stato scelto per la sua fisicità e forse anche per i suoi pur brevi trascorsi cinematografici (il ruolo in Après mai prelude in qualche modo al ruolo per De Maria), e il problema della voce è stato risolto da un lato affidandosi a un ottimo attore di casa nostra, dall’altro limitando quasi totalmente gli interventi della voce di Paravidino nello spazio over. Cosicché corpo e voce procedono paralleli, uniti e scissi, contigui e distanti. Un’ulteriore collisione per un film antipatico e scostante, spesso infelice e punteggiato di grossolani scivoloni, ma vivo, pulsante, entusiasta. Che nel viso sofferente e sorridente di Isabella Ferrari, ormai uno dei volti più inquietanti del nostro cinema, riassume la sua doppia cifra, gioiosa e digrignata, vitale e soffocata.

INFO
La scheda di La vita oscena sul sito della Biennale.
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