Journey to the Shore

Journey to the Shore

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Con Journey to the Shore Kiyoshi Kurosawa torna alle sue ossessioni principali: l’elaborazione del lutto, il viaggio verso la morte come accettazione della perdita della propria materialità. In Un certain regard a Cannes 2015.

Questi fantasmi

Nel cuore del Giappone, Yusuke invita la sua fidanzata Mizuki a un viaggio attraverso i villaggi e i campi di riso. Un modo per ritrovare le persone che Yusuke ha incontrato durante gli ultimi tre anni, dal momento in cui è annegato in mare. Ma perché questo fantasma vuole tornare indietro? [sinossi]

La sbornia russa è durata poco, a ben vedere. Dopo l’ansiogena gita a Vladivostok, dove era ambietato Seventh Code, l’esaltante action minimale presentato al Festival Internazionale del Film di Roma nel 2013 (insieme all’altrettanto geniale cortometraggio Beautiful New Bay Area Project), Kiyoshi Kurosawa torna a girare su suolo giapponese con Journey to the Shore, in concorso nella sezione Un certain regard alla sessantottesima edizione del Festival di Cannes.
Il ritorno sulle sponde natie coincide con una ricomparsa dei temi portanti del suo approccio alla materia cinematografica. A rendere evidente quanto appena affermato bastano pochi accenni alla sinossi: Mizuki è una donna solitaria, che insegna pianoforte ai bambini. Di ritorno a casa dopo una delle sue lezioni trova ad aspettarla nell’appartamento il suo fidanzato Yusuke, morto tre anni prima in mare per annegamento. Per niente sorpresa dalla presenza del fantasma di Yusuke, Mizuki decide di seguirlo in un viaggio in una zona rurale, dove l’uomo può accomiatarsi dalla vita incontrando le persone che l’hanno accolto dopo la sua morte.

C’è sicuramente lo shintoismo, o almeno una parvenza di esso, alle spalle di Journey to the Shore (il titolo internazionale sostituisce l’originale Kishibe no tabi), ma si annidano soprattutto le ossessioni del cinema di Kurosawa, a partire dall’elaborazione – sempre dolorosa e faticosa – del lutto. Il distacco inevitabile tra Yusuke e Mizuki non può essere netto, né immediato. Il viaggio non è un modo per riannodare i fili della propria esistenza, ma piuttosto per accettarne la finitezza. Torna dunque a popolarsi di fantasmi, il cinema di Kurosawa, ectoplasmi che convivono a stretto contatto con i viventi e ne condividono umori, sconfitte, lacerazioni e spasmi emotivi. Yusuke e Mizuki sono anime erranti, che attraversano il Giappone per riuscire ad assaporare quell’istante di vita che non è più loro concesso. Solo alla fine, quando oramai la dipartita è prossima, i due innamorati hanno la possibilità di ritrovarsi anche da un punto di vista fisico e sessuale. La materia, fino a quel momento, è ipotesi suggestiva quanto impraticabile. Siamo particelle destinate a scontrarsi tra loro per formare nuova vita (già morta), universi in espansione e implosione costante. Siamo (in)finiti.

Kiyoshi Kurosawa affronta con la solita forza poetica l’immateriale, donandogli una profondità che ben pochi altri registi possono permettersi di sfiorare, e conduce Journey to the Shore sulle tracce di Pulse; ma se lì era il genere (l’horror) a fungere da grimaldello indispensabile per scardinare il sistema e donargli nuova vita, in questa nuova sortita dietro la macchina da presa è un lirismo trattenuto, romantico nel senso più puro del termine, a deflagrare sullo schermo.
Meno sorprendente di quanto sarebbe forse lecito aspettarsi (l’impressione, fermandosi alla professione della protagonista, è che Kurosawa abbia scelto di concentrarsi sul “piano” relegando in un cantuccio il “forte”), e a tratti troppo “espanso” per cogliere con forza un discorso già approfondito sotto molti punti di vista nel corso di una carriera quasi trentennale, Journey to the Shore conferma in ogni caso la straordinaria statura autoriale di un cineasta essenziale e al contempo umorale. Anche e forse soprattutto quando ci si trova a confrontarsi con un’opera minore, se questo termine può acquistare un reale senso.

Info
La scheda di Journey to the Shore.
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