Monster Hunt

Monster Hunt

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Irrazionale pasticcio post-narrativo e post-cinematografico, il cinese Monster Hunt unisce demenzialità e computer graphic in un abbraccio letale. Alla decima edizione della Festa del Cinema di Roma.

La post-apocalisse

Gli umani guerrafondai arrivano in un mondo fantastico governato dai mostri, conquistano il regno e confinano i mostri verso le montagne. [sinossi]

L’inesorabile percorso pan-cinese genera mostri. Ce lo conferma letteralmente la visione di Monster Hunt, pasticcio irrazionale diretto dall’hongkonghese Raman Hui (co-regista a suo tempo di Shrek 3) e prodotto con capitali cinesi. La storia ormai è la solita: la Mainland, sempre più potente e ricca, attira ed attrae maestranze, registi, attori, generi cinematografici e quant’altro da Taiwan ma, soprattutto, da Hong Kong per ri-contestualizzare quel cinema in un contesto commerciale e produttivo più ampio. Il risultato, tranne rarissime eccezioni (La battaglia dei tre regni di John Woo, i due Detective Dee di Tsui Hark), è sempre disastroso, ma viene immancabilmente premiato al botteghino, come dimostra in maniera eclatante proprio Monster Hunt, campione d’incassi in patria.
Se riesce dal punto di vista ‘mercantile’, la formula produttivo-finanziaria non riesce invece sotto l’aspetto, come dire, artistico per una serie di motivi. Il primo, il più eclatante, è la censura governativa che impone limitazioni di ogni tipo. Il secondo è una de-contestualizzazione del discorso: se pure i classici hongkonghesi del passato erano girati in mandarino e ipoteticamente ambientati nella Madre Patria, il genius loci produttivo era proprio Hong Kong con le sue connaturate contraddizioni anglo-asiatiche, con quel meticciato che era ed è lampante in ogni film, paradossalmente anche in quelli in costume (dove passava attraverso altro come ad esempio il nervosismo del montaggio, la vorticosità narrativa, l’energia degli interpreti, ecc.). Il terzo motivo è un afflato generalista: il volersi rivolgere ad un pubblico più ampio possibile porta ad azzerare qualsiasi rischio e tende ad immaginare un pubblico-bambino che debba essere messo in grado di riuscire a comprendere tutto, anche i passaggi più elementari, portando dunque a un inevitabile processo di banalizzazione.

Qui, nel nuovo cinema pan-cinese, è tutto compassato, de-politicizzato, a-moralizzato. Sì – per quanto vi sia in scena una continua baraonda visiva –  anche Monster Hunt è concettualmente compassato, perché si adagia sul cliché e sul contro-cliché, perché è tarato su una comicità che non è oscena nel senso di scorretta, radicale e inventiva, quanto piuttosto appare oscena nella sua volgare prevedibilità (il peto di uno dei mostri). O, ancora, in questa spaventosa paura dell’horror vacui, Raman Hui riempie il suo film di situazioni che per superare il cliché vorrebbero essere spiazzanti e invece risultano semplicemente assurde e insensate (i mille ribaltamenti di campo dei vari personaggi, i mostri che si trasformano in umani e viceversa).
È un mondo senza centro e senza logica quello di Monster Hunt, un mondo dove i mostri in computer graphic e gli umani appaiono tutti post-umani, finti, posticci, involucri vuoti di corpi inesistenti ed evaporati (così come si vede, con involontario spunto teorico, all’inizio del film). Un cinema che si sfalda e che avanza in maniera casuale per strappi e accelerazioni varie, dettate non da necessità narrative quanto da stimoli esterni con cui si vuole sollecitare lo spettatore con trattamento galvanico. E allora ecco dei mostri che si litigano tra di loro (senza farci capire il perché), ecco i mostri che attaccano a cantare delle nenie insopportabili, oppure ecco gli umani che si esibiscono in momenti wu-xia prima tra di loro poi con gli stessi mostri, o ancora ecco degli apici di demenzialità assoluta (il protagonista che si ritrova ‘incinto’ di un mostro) senza che la trovata la si voglia o la si possa portare fino agli estremi – vale a dire al comico come anarchia.

Il tentativo di unire cartone animato ‘scafato’ all’americana con comicità demenziale alla Stephen Chow è dunque completamente fallito, e ciò che resta sono le macerie di un qualcosa che è persino difficile da classificare come meccanismo puramente cinematografico, visto che Monster Hunt sembra richiedere una soglia di attenzione veramente basica e che persino, a tratti, sembra tarato su delle pause televisive (ci sono un paio di dissolvenze in nero sospette, come se chiamassero lo spot).
Detto questo, sembra paradossale che, capitanati dal neo-direttore Antonio Monda, i nuovi selezionatori della Festa del Cinema di Roma – dove il film è stato presentato – abbiamo dimostrato, scegliendo questo film, di essere più realisti del re. Noto conoscitore del cinema mandarino e spesso ingiustamente sbeffeggiato per questa sua preparazione, infatti il vecchio direttore Marco Müller si sarà fatto una risata nel vedere questo film in programma.

Info
La scheda di Monster Hunt sul sito del Festival di Roma.
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