Il cielo può attendere

Il cielo può attendere

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In versione restaurata e splendente, torna nelle sale grazie alla rassegna di Lab 80 “Gene Tierney, la diva fragile” uno dei capolavori di Ernst Lubitsch. Primo e unico film girato dal cineasta berlinese in Technicolor, Il cielo può attendere è una straordinaria commedia sentimentale, leggiadra e commovente, cadenzata dalle ampie ellissi narrative di Samson Raphaelson, dalla voce narrante di Don Ameche e dalle note di Alfred Newman. E illuminata dalla raffinata bellezza della Tierney.

Scala al Paradiso

Appena defunto, Henry Van Cleve arriva nell’anticamera dell’inferno dove racconta al diavolo la propria vita: è sempre stato viziato dai genitori, è stato iniziato presto ai piaceri della carne da una giovane cameriera, gli sono piaciute tantissimo le donne ma è rimasto sempre fedele alla bellissima moglie… [sinossi]
Io non lavoro qui. Non sono un commesso.
Mi è bastato vedervi e vi ho seguita.
Fosse stato un ristorante, sarei stato un cameriere;
una casa in fiamma, pompiere.
Se foste salita in un ascensore,
l’avrei fermato e avremmo vissuto lì tutta la vita.
Henry Van Cleve (Don Ameche)

Il cielo non ha avuto pazienza, ma questo si è scoperto dopo, il 30 novembre 1947, a quattro anni dall’uscita di Heaven Can Wait (Il cielo può attendere, 1943). Geniale, ironico, elegante cineasta europeo capace di conquistare la fabbrica dei sogni, Ernst Lubitsch ci lascia troppo presto, pur trovando l’immortalità nella sua corposa filmografia.
Esordio negli sfavillanti cromatismi del Technicolor e summa di una serie di temi ricorrenti, Il cielo può attendere diventa quindi una sorta di testamento artistico, di sguardo retrospettivo sul suo stesso cinema, su una filosofia intrisa di leggerezza, mai di superficialità.

La discesa agli inferi di Henry Van Cleve (Don Ameche), il flashback che ripercorre l’intera vita dalla nascita all’ultima impresa di questo romantico e gentile Casanova, e il sincero bilancio esistenziale finiscono inevitabilmente per valicare i confini del grande schermo, arricchendosi ulteriormente di significati e suggestioni. In questo senso, Il cielo può attendere ingloba buona parte della filmografia lubitschiana, dissezionando il celeberrimo Lubitsch Touch – quella capacità di filtrare attraverso una sofisticata ironia sentimenti e pulsioni, cogliendone l’essenza, rendendo palpabili i fremiti, le rinunce e tutto ciò che apparteneva al fuori campo. E la stessa giocosa deriva fantastica, con la messa in scena di un Aldilà dal design geometrico e raffinato, sembra voler portare ancor più in primo piano quella terra di mezzo che Lubitsch ha spesso dipinto sul grande schermo: non gli Stati Uniti, non l’Europa, ma Lubitschland – per dirla à la Scott Eyman [1].

Impegnato a smontare e deridere i rigidi schematismi morali dei suoi contemporanei, Lubitsch tratteggia il consueto contesto aristocratico/altoborghese, un microcosmo che sembra estraneo allo scorrere della Storia, al succedersi degli eventi, tutto concentrato sulla propria comoda esistenza: ma è in questo mondo altro che Lubitsch può dare sfogo al ricercato sarcasmo, ai dialoghi brillanti e pungenti, alla rappresentazione di sentimenti totalizzanti, privi di scorie.
Il cielo può attendere vive di fulminee parole e di lunghi silenzi: i dialoghi vivaci e la voce narrante di Henry/Ameche riempiono di senso le ampie ellissi narrative di Samson Raphaelson [2], sceneggiatore di alcune delle pellicole più riuscite di Lubitsch – una dozzina di collaborazioni: Scrivimi fermo posta (1940), Mancia competente (1932), La vedova allegra (1934), L’allegro tenente (1931) e via discorrendo. Col suo spirito dissacrante, Raphaelson è il coautore del Lubitsch Touch.

Le porte dell’inferno de Il cielo può attendere, eleganti e imponenti come il loro padrone di casa (lo sfortunato Laird Cregar, che morirà l’anno successivo), anticipano le intuizioni scenografiche e immaginifiche di Scala al Paradiso. Pur con un approccio narrativo e una tensione emotiva calibrata diversamente, entrambi i film giungono al medesimo traguardo: due memorabili storie d’amore, estremamente commoventi. Ed è forse questo uno dei risultati più sorprendenti del cinema di Lubitsch, così frizzante, teatrale, cerebrale, eppure estremamente romantico – se la passione resta fuori campo, nonostante gli ammiccamenti erotici (si pensi al rapporto con del giovane Henry con la domestica francese), l’essenza dell’amore deflagra nelle parole di Martha, negli occhi luccicanti della Tierney, nell’arrendevolezza di Henry.

In versione restaurata e splendente, Il cielo può attendere torna nelle sale grazie alla Lab 80 e alla rassegna Gene Tierney, la diva fragile. Gli altri titoli di questa preziosa iniziativa sono Vertigine di Otto Preminger, Il fantasma e la signora Muir di Joseph L. Mankiewicz e Femmina folle di John M. Stahl.

Note
1. Cfr. Scott Eyman, Ernst Lubitsch: Laughter in Paradise, Simon & Schuster, New York 1993.
2. A Lubitsch e Raphaelson bastano le torte di compleanno, le cravatte e l’armadietto dei medicinali per restituire allo spettatore la dimensione temporale e l’inarrestabile scorrere del tempo.
Info
Una sequenza tratta da Il cielo può attendere.
Il trailer originale de Il cielo può attendere.
La scheda de Il cielo può attendere sul sito di Lab 80.

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