Le ragazze di San Frediano

Le ragazze di San Frediano

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Lungometraggio d’esordio per Valerio Zurlini, Le ragazze di San Frediano fu commissionato all’autore dalla Lux Film, ma il regista bolognese riuscì a personalizzare più del previsto una commedia sentimentale trasformandola in un amaro e lancinante ritratto di provincia. Presentato all’undicesima edizione della Festa del Cinema di Roma per la retrospettiva su Zurlini.

About a Boy

Ispirato all’omonimo romanzo di Vasco Pratolini. Nel quartiere popolare di San Frediano a Firenze, il ventiduenne Andrea Sernesi, da tutti chiamato Bob, intreccia numerose relazioni con belle donne in simultanea saltando in mezzo a un groviglio di bugie. Renitente ai sensi di colpa, a un certo punto Andrea vedrà sfuggirgli la situazione di mano… [sinossi]

Dopo aver visto respinti vari copioni proposti per esordire alla regia di un lungometraggio, Valerio Zurlini riceve l’incarico dalla Lux Film di dirigere Le ragazze di San Frediano (1955), ispirato al romanzo omonimo che era stato dato alle stampe da Vasco Pratolini nel 1949. Il connubio Pratolini-Zurlini si rinnoverà poi nel 1962 col fortunato Cronaca familiare, che si guadagnerà il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia di quell’anno.
Le ragazze di San Frediano si profila quindi come un esordio su commissione, un caso piuttosto anomalo per Zurlini di opera il cui soggetto e/o sceneggiatura non furono curati personalmente dallo stesso autore. Tuttavia sarebbe da spettatori disattenti archiviare rapidamente questo esordio come puro prodotto industriale coerente a una linea generale del cinema italiano commerciale anni Cinquanta, spesso votato a un nascente e poi dominante “neorealismo rosa” in cui sul nobile tronco anni Quaranta s’innestano sempre più pressanti letture edulcorate, bozzettistiche e sentimentali.

È evidente infatti che dal tessuto narrativo di Le ragazze di San Frediano emergano chiari segnali in quella direzione; la retorica dei “poveri ma belli” si affermerà definitivamente due anni dopo con l’opera epocale di Dino Risi, ma anche qui, nel borgo popolare di San Frediano a Firenze, si muovono giovani personaggi maschili e femminili di spiccata avvenenza, costretti a dibattersi tra desiderio, convenzioni sociali e modelli culturali da ripercorrere orgogliosamente. Ne è un campione l’Andrea Sernesi protagonista, da tutti chiamato Bob per l’incipiente esterofilia di tutta una cultura italiana affascinata dai modelli americani e hollywoodiani desunti da una dilagante cinefilia popolare (non sarà un caso che a registrare tale mania collettiva giungerà nello stesso anno Un americano a Roma a invadere gli schermi di casa nostra); con grande sapienza Zurlini trasforma l’impiegato del romanzo originario in un prestante meccanico d’auto, alle prese con fascinose tute da lavoro sporche di grasso costantemente aperte su ammiccanti canottiere.

È l’uomo virile ed entusiasta del popolo anni Cinquanta, smanioso di rivestirsi di tutto punto nel fine settimana per dare sfogo alla sua voglia di conquiste femminili. Ogni conquista è una medaglia da sfoggiare, per poi dimenticarsene già dal giorno successivo e passare ad altre. Tuttavia, su tale linea garbata e ironica è già ravvisabile uno sguardo più personale, più pregnante e profondo, applicato al piacevole racconto di un universo futile e superficiale ma inquadrato con un buon margine di amara consapevolezza. Si avvertono in nuce chiari segnali di una poetica zurliniana in via di definirsi, ben percepibile nelle scelte stilistiche e nell’approfondimento di personaggi e dinamiche interpersonali.
Conquistatore e bugiardo incallito, il ventiduenne Bob si ritrova al centro di una girandola amorosa animata da cinque o sei figure femminili, ognuna pronta a cadere tra le sue braccia per ragioni diverse. A molte Bob promette di sposarle, a più di una si presenta inventando frottole su propri drammi privati, con una di loro si ritrova a fare il gigolò, con alcune di loro sfrutta il fascino della sua moto e millanta di essere un professionista di gare. Alle prese anche con continue beghe di vociante vicinato, a poco a poco Bob vede sfuggirgli la situazione di mano, fino a coronare la sua buffa vicenda con un ultimo quarto d’ora in cui raccatta botte e schiaffi da chiunque. La resa dei conti si svolgerà in un consueto clima di garbata ironia, che però tradisce una vena amarissima più che evidente.

Zurlini si applica infatti al racconto di una sorridente superficialità che sembra frutto diretto di un ritrovato piacere di vivere dopo le tragedie della Seconda Guerra Mondiale. È l’Italia popolare della ricostruzione, quella smaniosa di lavorare e partecipare a un progetto più individuale che collettivo, di riscoprire il piacere del vestito buono la domenica, di sfidare i compari maschi nella gara della conquista femminile. Tutta una nuova “Italia dei galli” estremamente epicurea, raccontata davvero con grande finezza da Zurlini, attento alle più sottili sfumature del gioco delle parti tra i due sessi. Ma Bob è anche il campione di un incolmabile senso di vuoto, spalancato dal sospetto di un inganno. In lui si agitano tenui segnali di consapevolezza, che solo a tratti gli permettono di guardarsi da fuori; emergono in alcuni imprevedibili squarci di amarezza, come in alcuni dialoghi notturni sul pianerottolo di casa con alcune delle sue donne, quelle più ferite e segnate dalla sua inaffidabilità. “Ma come? Tu mi volevi bene così?”, dice a Mafalda, pronta a lasciare una promettente carriera di ballerina pur di convolare a nozze con lui. Così Bob scopre di tanto in tanto le conseguenze dei suoi atti, confrontandosi con una vera dimensione sentimentale per la quale non si sente pronto o che addirittura non contempla. Il sospetto di un inganno, la paura di non essere un vincente, ma solo l’ennesimo anello di una catena ancestrale che vuole l’uomo spavaldo ed egoista, capace di ferire a morte il prossimo senza curarsene. Alla fine il vero ingannato sembra proprio lui, fregato da una cultura irrimediabilmente provinciale.

Secondo tale linea di ragionamento Bob appare quindi un buffo oppositore del conformismo morale (tema ricorrente anche nei successivi film di Zurlini: Estate violenta, 1959, La ragazza con la valigia, 1961, La prima notte di quiete, 1972) che crea scompigli nelle dinamiche benpensanti del popolo per rispondere tuttavia a un’altra incarnazione di conformismo. Da un lato la facile morale vecchia, assennata e familista dell’Italia popolare; dall’altro, l’inseguimento di modelli culturali calati dall’alto e desunti dalla falsificante fascinazione di una cultura “altra”. Non è possibile neanche fuggire, sottrarsi al teatro sociale è un diritto negato; sul finale, intenzionato a mollare Firenze e tutto il codazzo di donne e parenti, Bob raccoglie solo una scarica di calci e botte dal fratello più grande. Esiste una sola morale, e le deroghe concesse a essa devono essere comunque codificate e rispettate secondo schemi prestabiliti. Pure il profilo dello sciupafemmine rientra in dinamiche precise e collaudate.

Zurlini amplia quindi con grande sapienza la portata di un racconto brillante e ironico, aprendo squarci di imprevedibile espressività in un orizzonte narrativo apparentemente consueto per il cinema dei suoi anni. Certi scorci tradiscono già un gusto non comune per la sintesi espressiva tramite il racconto degli ambienti; basti pensare alla lenta carrellata laterale sulla platea delle prove in teatro, in cui si dà conto di un pubblico poco numeroso e disordinato, per lo più anziano, adagiato su seggiole d’occasione. È la piccola realtà di provincia, schiacciante per gli slanci vitali di aitanti giovani. È la solita Italia per vecchi, in cui uno scapestrato come Bob finisce per ricoprire un suo involontario ruolo sociale (l’esempio da non seguire) e può solo abbandonarsi a inesausti desideri di fuga. Se non nella realtà, quantomeno nella fantasia, inventando montagne di frottole per raccontarsi un altro se stesso. Al contempo Zurlini mostra già una non comune sensibilità per il paesaggio, capace di inscrivere la figura umana in un quadro significante e produttivo con l’ambiente circostante. La Firenze de Le ragazze di San Frediano è tutto fuorché turistica; dei monumenti più importanti vediamo solo qualche pallido profilo in lontananza, mentre sale in primo piano la Firenze popolare, circondata da campi sconfinati dove oggi sorgono interi quartieri costruiti dagli anni Sessanta in poi.
Bob e la sua moto si disperdono nel quadro, significativamente rarefatti in un orizzonte sostanzialmente contadino, artigiano, operaio o tutt’al più piccolo-borghese. Bob sogna e sfreccia in moto, ma in lontananza i tempi sono scanditi dalle sirene delle fabbriche, tanto segnale di modernità quanto schiacciasassi per sogni e aspettative.

Fuggendo da corrive strutture di commedia, Zurlini opta spesso per le lunghe inquadrature e i tempi dilatati, lasciando parlare i personaggi tramite il loro agire in ambienti ben connotati, col pieno sostegno di una raffinata fotografia a netti contrasti di Gianni Di Venanzo. Altrettanto sottile è il lavoro sulle tante figure femminili, spesso poco più di bozzetti umani ma ben riconoscibili tra malizia e sostanza morale, una sensibilità per i personaggi di donna che diventerà una costante della poetica zurliniana. Al centro di tale girandola sentimentale si erge la figura di Antonio Cifariello, perfetta incarnazione di un’epoca, impareggiabile modello di fisicità di un’Italia e dei suoi meccanismi morali. Purtroppo scomparso prematuramente, Cifariello fu ovviamente doppiato con accento fiorentino (come del resto tutto il cast), ma nessuno potrebbe immaginarsi un altro Andrea Sernesi al suo posto. Perché in contrasto con la tracotanza dei poveri ma belli alla Maurizio Arena, Cifariello portava sul volto l’ingenuità infantile di chi mente credendo per primo a ciò che sta inventando.
Quasi mai impastato con il diretto impegno civile e sociale, il cinema di Zurlini racconta però spesso tra le righe un orizzonte morale. Tramite gli strumenti di un’apparente commedia di costume, Le ragazze di San Frediano si delinea come il racconto di un inganno, quello della sorridente ricostruzione postbellica, in cui è più facile veder andar delusi i sogni e le aspettative che vederli realizzati. Complice la pigrizia instillata dal familismo, complice il basso profilo di città tanto affascinanti quanto piccole e ben poco internazionali (sotto tale profilo la Firenze di allora sembra un calco di quella attuale), i ragazzoni come Bob continuano a sognare, smaniare e scalpitare. Più o meno consci che da lì non si scappa. Tanto vale allora giocare. Non resta altro.

Curiosità: tra gli aiuto registi troviamo accreditato anche Giulio Questi, che era stato al fianco di Zurlini – sia come aiuto che come autore dei testi – anche per i documentari diretti dal regista bolognese nei primi anni Cinquanta.

Info
La pagina Wikipedia di Le ragazze di San Frediano.
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