Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc

Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc

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Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc segna la nuova incursione dietro la macchina da presa di Bruno Dumont, uno dei pochi, pochissimi eretici che il cinema europeo abbia allevato negli ultimi venti anni. Un musical rock stonatissimo, ridotto all’osso per quanto riguarda personaggi, movimenti di macchina e scenografie, che cerca di rintracciare a modo suo le radici della Francia. Sulla Croisette nel programma della Quinzaine des réalisateurs.

La fede che stona

Francia, 1425. Nel mezzo della Guerra dei cent’anni la giovane Jeannette, alla tenera età di otto anni, fa a guardiana di pecore nel piccolo villaggio di Domremy. Un giorno dice alla sua amica Hauviette di trovare insostenibile la vista delle sofferenze causate dagli inglesi. Madame Gervaise, una suora, prova a ragionare con la ragazzina, ma Jeannette è pronta a prendere le armi per la salvezza delle anime e la liberazione del regno di Francia. Sorretta dalla fede, diventerà Giovanna d’Arco. [sinossi]

Guardare il trailer di Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc (lo si trova con facilità su Youtube, ma è anche linkato alla fine di questa recensione, nella voce “info”) permette di farsi solo una vaga idea di ciò che accade realmente sullo schermo. Venduto fin dai mesi scorsi come “il musical di Bruno Dumont”, il decimo film diretto dal regista di Bailleul, estremo nord-est della Francia a meno di cinque chilometri dal confine belga, non fa altro che confermare un dettaglio: nel panorama cinematografico europeo Dumont è uno dei pochi, pochissimi registi eretici, in grado di esulare dalla prassi e viaggiare in solitaria, tra salite ardite e discese a perdifiato. Fin dai tempi de La vie de Jésus il percorso di Dumont è apparso tutto meno che lineare, volutamente alla perenne ricerca della retromarcia, del detour, del cambio di rotta: una scelta curriculare che ha senza troppa difficoltà inserito il nome del regista tra gli indesiderabili per buona parte della critica, maggiormente ben disposta verso autori meno ostili, più accomodanti. Così, dall’esodo ininterrotto che accompagnò la proiezione stampa veneziana di 29 Palms in poi, il suo cinema è stato oggetto di attacchi preventivi, prese di posizione pregiudiziali, letture cariche di rancore. Tutti obiettivi che, è giusto sottolinearlo, con ogni probabilità inorgogliscono Dumont.
Al di là di queste speculazioni, che lasciano il tempo che trovano, è interessante notare come Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc abbia preso corpo tra le atmosfere tutt’altro che rilassate di una Francia sotto scacco del terrore e nel bel mezzo di una campagna per le presidenziali mai così accesa e ricca di spunti, con tanto di vincitore che qualcuno ha definito “a sorpresa”. È un film sulle radici della Francia, questo Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc, che ha il coraggio di andare a scomodare uno dei pochi totem culturali difficili da scalfire in ambito francofono, quello della pulzella d’Orléans, la Giovanna d’Arco che guidò il popolo alla resistenza contro l’esercito inglese e venne considerata pazza, eretica, e bruciata sul rogo.

Anche Dumont è un eretico, un uomo che non accetta le regole del gioco e ne svela l’infima natura, un ironico destrutturatore di prassi sistemiche usurate e barbare; la sua Jeannette, infante che già si dona alla causa dei poveri e dei diseredati ed è pronta a tutto per mettere fine alle incursioni britanniche in territorio francese, è in qualche modo parente stretta della famiglia di pescatori di Ma Loute e la gang di ragazzini di P’tit Quinquin: come loro è una proletaria, una guardiana di pecore, e come loro vive una spinta anche inconscia o forse dettata dalla follia – che alberga sempre nei protagonisti dei film di Dumont, da 29 Palms a Camille Claudel 1915 – verso qualcosa di misterico, a tratti incomprensibile. C’è una presa di posizione netta per Dumont, ancora più categorica di quella operata per i due precedenti film: si riduce quasi a zero la componente scenografica, le strutture costruite dall’uomo sono presenti solo in un passaggio del film, e si rinuncia in ogni modo all’idea di assoggettarsi al reale, qualsiasi cosa esso significhi.
Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc, si sa, è un musical, ma viene a sua volta spogliato di ogni codice linguistico. Dumont non è un perfezionatore del linguaggio, né si lascia sedurre dalla filologia. È piuttosto un neologista, un inventore di lemmi, un creatore ex novo di forme di comunicazione. Così Jeannette e tutti gli altri personaggi in scena cantano, su trame musicali prossime al metal, nenie stonatissime, tranne lo zio della futura martire che si lancia in arditi quanto sbalestrati rap. Le movenze goffe, posticcie, e le voci improvvisate di chi non ha mai studiato canto, donano al film una potenza visionaria che è pari, o simile, ai deliri cristiani che stordiscono la pulzella. La Francia mantiene la propria difesa dall’esterno nel delirio, partendo dal concetto radicato di terra, e senza mai sapersi elevare dal territorio – fanno eccezione i santi, in ovvia levitazione. La negazione di uno spazio ricostruito e il rifiuto di un tempo che sia univoco e messo in scena con le dovute accortezze sono la blasfema risposta di Dumont all’iconografia, alla storia costruita sull’immagine e a essa sempre devota. L’immagine invece per vivere deve essere deturpata, svilita, ridotta a uno stadio primordiale. Un atto politico che in troppi potrebbero scambiare per puro scherzo, e che invece si insinua in questa edizione di Cannes scalando con facilità le posizioni di vertice.

Info
Il trailer di Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc.
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